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Guerra in Ucraina: si configura sempre di più il delitto di genocidio

Con quella russo-ucraina siamo di fronte ad una guerra continuativa di aggressione con una distruttività disumana, barbara e crudele, che ha largamente interessato la popolazione civile e ogni tipo di costruzioni urbane e rurali, provocando molti morti e feriti, sfollati e senzatetto. Ed altro ancora. I basilari criteri del diritto internazionale sono stati violati non solo per i molti cadaveri ritrovati nelle “fosse comuni” (e il modo con cui sono stati rinvenuti), ma anche per i corridoi umanitari non garantiti – o lasciati credere garantiti e poi intenzionalmente violati – oppure non concessi, come pure per il bombardamento di edifici ospedalieri e scolastici. La gente vive in strettezze di tutti i tipi, in primis l’assenza di cibo e di acqua.

La configurazione di un delitto di genocidio, prende sempre più piede, con la progressiva scoperta delle atrocità commesse sulla popolazione debole e inerme. I soggetti agenti e agiti di questa tragedia, l’aggressore russo e l’aggredito ucraino, sono ben chiaramente identificati ed anche eticamente valutati. Dal punto di vista morale, un giudizio oggettivo è molto chiaro e grave, anche considerando l’ingiustificato motivo imperialistico e pseudo-difensivo che si dice abbia mosso all’invasione armata di uno Stato libero e sovrano. È ovvio che la cosiddetta «difesa» dello Stato russo non può essere configurata come «preventiva», perché avviene in assenza di precise aggressioni e soprattutto non può giustificare in nessun modo invasioni violente come quella che purtroppo è in atto da più di quattro mesi.

Appare, invece, assodato il diritto a difendersi di una nazione stremata come l’Ucraina, ossia il suo diritto naturale a cercare di bloccare con la forza la violenza bellica, ampiamente letale, dell’aggressore. E questo, se necessario, sino alla sua soppressione fisica. È questo un precipuo dovere della pubblica autorità, a cui non può eticamente sfuggire. Come nel caso dei governanti ucraini, se si può rinunciare alla propria legittima difesa, non si può rinunciare alla legittima difesa dovuta a terzi, al popolo intero. Nel caso in questione, si configura, inoltre, il diritto a essere sussidiati nell’opera difensiva, che diviene cogente perché le risorse proprie sono insufficienti, mentre quelle degli Stati vicini abbondano.

Come è avvenuto in altri casi, in quello ucraino è configurabile, in modo preciso, l’evenienza di un’ingerenza umanitaria. Alla sua concreta gestione poteva o doveva presiedere l’autorità mondiale, l’ONU. Purtroppo ciò non è avvenuto perché tale autorità al momento difetta di quella trasparenza decisionale e di quella efficacia operativa che sarebbero richieste. Basti pensare che la Confederazione russa siede nel Consiglio di sicurezza, che delibera all’unanimità dei suoi membri e a cui attualmente spetta assumere decisioni a proposito dell’invasione russa in Ucraina. Il semplice veto russo è in grado di bloccarle. Siamo di fronte ad un’impasse molto importante che segnala deplorevolmente la debolezza dell’istituzione mondiale, che da molte parti, anche dalla Chiesa Cattolica, si è richiesto di riformare.

Questo diritto scatta quando la situazione aggressiva è estrema e ogni altra iniziativa di pacifica trattativa negoziale è fallita, ivi incluso l’effetto deterrente delle sanzioni economiche, mentre persone deboli e totalmente esposte continuano a cadere uccise o colpite sotto i colpi balistici o missilistici inferti con inaudita ferocia da impianti molto sofisticati. Siamo di fronte ad una extrema ratio, la cui urgenza per la tempistica e la cui emergenza per i beni personali coinvolti richiede una risposta hic et nunc puntuale e precisa, incompatibile con i tempi diplomatici troppo lunghi e incerti. Del resto, da un punto di vista etico, è ulteriormente in gioco la questione di una specifica connivenza, quella di chi lascia che sia aggredita a morte la popolazione che può in qualche modo aiutare a sfuggire ad un destino così disumano. La legittima difesa non alimenta il conflitto, innescando una escalation militare, come alcuni pensano. Al contrario, invece, lo contiene (come può) nel suo tragico dilagare. Pertanto, non si può essere contrari all’invio di aiuti militari, con la motivazione che così si alimenterebbe la guerra, che certo diversamente si indebolirebbe o finirebbe, ma semplicemente per il dilagare di una situazione vicina al genocidio, lasciando morire o ferire chi forse si poteva salvare. Si potrebbe prospettare qui anche la questione della scelta di resa, quando cioè le effettive capacità di difesa sono di fatto esaurite o non siano più presenti. Ci si domanda, cioè, se sia giusto continuare nella lotta di contrasto, quando questa è diventata solo simbolica e per malinteso amor di patria o di nazione si estremizzano le vicende fino a condurle alla morte certa, in una resistenza che non ha più alcun senso.

La resa potrebbe essere auspicabilmente anche patteggiata e non semplicemente senza condizioni e senza garanzie. Si prospetta pure la domanda sulla sua effettiva praticabilità, e sulla sua efficace capacità di garantire situazioni più positive delle attuali. In altre parole, è difficile chiedere di rinunciare alla lotta per la propria libertà e per quella dei propri cari e del proprio popolo: è istintivo andare fino in fondo: è comprensibile, ma è altresì ragionevole scegliere di lottare, forse per un onore non sempre beninteso, quando la lotta non ha più alcun senso, se non un destino di morte? L’uso della forza, che se immorale è violenza, anche se non sempre è il caso, è strettamente vincolato, a sua volta, non a distruggere l’aggressore, ma solo a porlo in una situazione di non nuocere, a disarmarlo, a disinnescare il potenziale bellico con cui offende indiscriminatamente. La logica ad esso soggiacente non è vendicativa, perché non dimentica la dignità della persona umana dell’aggressore, ma punta a renderlo appunto innocuo.

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