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La guerra nega la sacralità della vita

La legittima difesa non alimenta il conflitto, innescando una escalation militare, come alcuni pensano. Al contrario, invece, lo contiene (come può) nel suo tragico dilagare. Pertanto, non si può essere contrari all’invio di aiuti militari, con la motivazione che così si alimenterebbe la guerra, che certo diversamente si indebolirebbe o finirebbe, ma semplicemente per il dilagare di una situazione vicina al genocidio, lasciando morire o ferire chi forse si poteva salvare. Si potrebbe prospettare qui anche la questione della scelta di resa, quando cioè le effettive capacità di difesa sono di fatto esaurite o non siano più presenti. Ci si domanda, cioè, se sia giusto continuare nella lotta di contrasto, quando questa è diventata solo simbolica e per malinteso amor di patria o di nazione si estremizzano le vicende fino a condurle alla morte certa, in una resistenza che non ha più alcun senso.

La resa potrebbe essere auspicabilmente anche patteggiata e non semplicemente senza condizioni e senza garanzie. Si prospetta pure la domanda sulla sua effettiva praticabilità, e sulla sua efficace capacità di garantire situazioni più positive delle attuali. In altre parole, è difficile chiedere di rinunciare alla lotta per la propria libertà e per quella dei propri cari e del proprio popolo: è istintivo andare fino in fondo: è comprensibile, ma è altresì ragionevole scegliere di lottare, forse per un onore non sempre beninteso, quando la lotta non ha più alcun senso, se non un destino di morte? L’uso della forza, che se immorale è violenza, anche se non sempre è il caso, è strettamente vincolato, a sua volta, non a distruggere l’aggressore, ma solo a porlo in una situazione di non nuocere, a disarmarlo, a disinnescare il potenziale bellico con cui offende indiscriminatamente. La logica ad esso soggiacente non è vendicativa, perché non dimentica la dignità della persona umana dell’aggressore, ma punta a renderlo appunto innocuo. Non è quindi da pensare una guerra totale, anche se solo convenzionale, cioè senza l’uso di ordigni nucleari, che giunga per esempio a coinvolgere interi paesi in una ritorsione infinita, ma solo puntuali azioni belliche atte allo scopo di cui sopra si diceva.

Non sempre è semplice operare questa distinzione in actu, quando per esempio le conoscenze disponibili sono poche e insicure, oppure quando gli stessi interventi militari sfuggono ad una misurazione precisa. Tuttavia il criterio rimane, per lo meno a livello orientativo, valido. Certo la diplomazia deve continuare ad operare, anche perché dovrà riprendere al momento della fine delle ostilità belliche, a meno che non si presenti lo scenario imperialistico che muove la guerra russo-ucraina. Tuttavia, ciò che può essere utile per la soluzione del problema-guerra non è la considerazione unilaterale o della via diplomatica o della via umanitaria o della via economico-finanziaria o della via difensivo-militare, ma la sinergia delle quattro. Occorre agire in modo convergente su più fronti per ottenere il risultato di una cessazione delle ostilità o per lo meno di un “cessate il fuoco”. Le prime tre sono assicurate, nonostante difficoltà realizzative e applicative e fallimenti; la quarta occorre porla in atto, con discrezione e efficacia, quando le vittime – morti e feriti – degli orrori di questa guerra ingiusta crescono e non possono più lasciarci impassibili e rassegnati spettatori alla violenza altrui. È il sacrosanto diritto alla legittima difesa, a disarmare l’aggressore, a impedirgli che continui indiscriminatamente ad uccidere e a ferire.

Ed infine occorre, anche in situazioni tragiche e drammatiche, non smettere di pensare al futuro, migliore del presente, quando cessata l’attuale insensata guerra, si dovrà gestire il dopo-guerra, qualunque esso sarà, perché la distruzione delle persone, delle famiglie e delle città, non inneschi una crisi depressiva che dilapidi ogni seppur piccola risorsa di bene. Occorrerà una leadership forte e coraggiosa e lungimirante, che sappia guidare un popolo colpito, quello ucraino, verso la realizzazione della propria identità morale e religiosa nel concerto degli altri Paesi. Il cuore del discernimento cristiano rispetto alla violenza. In vari momenti del suo magistero, a fronte della violenza e della guerra, papa Francesco propone l’esemplarità dell’azione non violenta di Gesù Cristo. Diventa, allora, importante fermarsi a considerare quanto ha detto e fatto il Signore Gesù. Ciò è fondamentale per il discernimento cristiano, specie sul piano evangelico, che deve trovare adeguata traduzione sul piano politico. Gesù Cristo “predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cf Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cf Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cf Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cf Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cf Ef 2,1416)”. Poiché Gesù Cristo è indicato come modello e fonte di nonviolenza, in vista di una prassi cristiana, diventa necessario esplicitarne per i credenti le ragioni e le modalità. Egli rivela la nostra vocazione alla pace e, dunque, alla nonviolenza attiva e creativa. La sua morte in croce è denuncia della violenza e sollecitazione all’impegno nell’amore e nella giustizia. È fondazione di un’etica della nonviolenza, di un ethos contrassegnato, come appena accennato, dall’attività e dalla creatività.

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