Abbiamo visto negli ultimi tempi riacutizzarsi il fenomeno delle baby-gang: giovanissimi che si organizzano in gruppo, bullizzano coetanei, aggrediscono anche a scopo di furto o di vendetta. I giovani hanno dentro di loro una carica di aggressività che in alcuni casi può essere incanalata in modo positivo. Quando sono amati, hanno sufficienti relazioni affettive, utilizzano questa “aggressività adattativa” – si chiama così – in attività varie, culturali e di divertimenti. Il problema è che i giovani di oggi sono “terra di nessuno o del primo occupante”.
A partire dalle famiglie si riscontra una carenza di relazione, pur vivendo sotto lo stesso tetto si può verificare il “dinamismo di abbandono”, i giovani quindi si sentono come esplodere, si riuniscono in gruppo, e questo sfocia anche in situazioni di violenza e uccisioni barbare, come è accaduto nel caso di Willy Monteiro. In alcuni soggetti troviamo un’ego all’ennesima potenza, con un culto del corpo, della fisicità, dell’io che pensa di essere onnipotente, dell’io che non sa distinguere più il bene dal male e non sa vivere con gli altri. Il problema, forse ma non è automatico, è che non sono stati posti dei freni a delimitare i comportamenti sani da quelli di morte. Si è lasciato spazio ai giovani di coltivare questa modalità di relazione di sfregio e disprezzo degli altri.
Abbiamo potuto notare come, negli ultimi anni, il fenomeno delle baby-gang non interessi più solo i ragazzi, ma anche le ragazze. Un fatto che lascia maggiormente basiti, anche se questo tipo di comportamento non è mai giustificabile né quando lo compie un ragazzo né quando lo compie una ragazza. Oggi, purtroppo, non c’è più una chiara differenza dell’identità maschile e femminile. Questa differenza è molto più sfumata. Il mondo femminile, purtroppo, sta acquisendo dei valori che un tempo erano considerati di prerogativa maschile e viceversa. La globalizzazione della comunicazione tramite internet, inoltre, produce una indifferenziazione del genere: ciò che era maschile, ossia la violenza, viene percepita come un’esperienza anche da parte di molte giovani.
Un altro aspetto preoccupante è il fatto che di questi episodi violenti commessi dai giovani se ne parla solo quando ne veniamo a conoscenza dai telegiornali o dai social, poi finisco nel dimenticatoio. C’è una responsabilità dei mezzi di comunicazioni, ma anche nella scuola se ne dovrebbe parlare, partendo proprio da episodi di vita, facendo venire fuori i sentimenti. Ci dovrebbero essere dei luoghi dove i giovani dovrebbero essere liberi di esprimere i loro pareri, anche se molto divergenti da quelli degli altri. La scuola è un ambiente fondamentale. Si dovrebbero coinvolgere i genitori con dei corsi di formazione: a volte i papà e le mamme, con il loro silenzio, sminuiscono di determinati atteggiamenti violenti.
Quello delle famiglie è un punto critico: in un mondo che va sempre più veloce, con i genitori per molte ore fuori casa perché lavorano, i ragazzi si ritrovano sempre più spesso da soli, magari davanti a un pc o a uno smartphone. C’è una forte dipendenza da internet, dai cellulari e dai social. Questi elementi non sono assolutamente da demonizzare, ma sono da regolare. La famiglia dovrebbe saper alternare i momenti in cui il ragazzo può accedere ai social a momenti di dialogo o altre attività. C’è una fase in cui l’accompagnamento è molto importante, i giovani non possono essere lasciati a loro stessi. La vigilanza è fondamentale.