Di lui, di quello che le cronache politiche hanno definito a lungo Re Giorgio, considerando i famosi moniti di Napolitano qualcosa di più un semplice monito, certamente più ficcanti delle picconate di Francesco Cossiga, si dovrà sempre ricordare il fatto che sia stato il primo presidente della Repubblica ad essere rieletto per il secondo mandato.
Non solo. C’è un altro elemento che lo colloca nei libri della recente storia repubblicana. Napolitano è stato anche il primo capo dello Stato a essere stato membro del Partito Comunista Italiano, e il terzo napoletano dopo De Nicola e Leone. Ma quello della napolitanità è un altro dettaglio, buono per le biografie laterali. Nel solco centrale quei due passaggi restano fondamentali. Soprattutto il primo. Napolitano non venne rieletto perché amato, né tantomeno stimato, dalla classe politica, per la quale Re Giorgio ebbe parole durissime durante il suo intervento in parlamento.
L’ex capo dello Stato restò al Quirinale per uno stato di necessità, per rendere meno drammatica la fase congiunturale della politica di casa nostra, in un deficit di idee e prospettive come non si era mai visto prima. La sua rielezione, insomma, fu il modo per uscire dall’angolo e prendere tempo, vagando sul ring, come un pugile stordito. Due dati per comprendere il passaggio. Come capo dello Stato Napolitano ha conferito l’incarico a cinque presidenti del Consiglio dei ministri: Romano Prodi (2006-2008), Silvio Berlusconi (2008-2011), Mario Monti (2011-2013), Enrico Letta (2013-2014) e Matteo Renzi (2014-2016); ha nominato cinque giudici della Corte costituzionale (Paolo Grossi nel 2009, Marta Cartabia nel 2011, Giuliano Amato nel 2013 e, infine, Daria de Pretis e Nicolò Zanon nel 2014); cinque senatori a vita (lo stesso Mario Monti il 9 novembre 2011, Renzo Piano, Carlo Rubbia, Elena Cattaneo e Claudio Abbado il 30 agosto 2013).
Ecco, mettendo sotto la lente d’ingrandimento questi numeri, asettici nella loro cronologia, s’intravede come la gestione del Paese sia stata in altalena per almeno dieci anni, con passaggi anche complicati, dove la contrapposizione fra schieramenti ha dato un saldo zero per troppo tempo. Un elemento su tutti. Dopo le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio del 2013, in Parlamento si è venuta a creare una situazione di stallo. Il 22 marzo Napolitano affida a Pier Luigi Bersani (Pd) l’incarico di formare un governo ma dopo un lungo giro di consultazioni l’esponente dem rinuncia. Napolitano assume allora un’iniziativa inconsueta: nomina una commissione di “10 saggi” – esperti e personalità del mondo accademico e politico – che elaborino delle proposte in modo da individuare dei punti di convergenza per un possibile programma condiviso tra le forze politiche. Lo stallo politico termina con la nascita del governo guidato da Enrico Letta (Pd), a cui Napolitano affida l’incarico pochi giorni dopo. Il nuovo presidente del Consiglio si impegna a far tesoro del lavoro dei “saggi” facendo il possibile per realizzarne i punti elaborati. Il 17 febbraio 2014, dopo le dimissioni irrevocabili di Enrico Letta a seguito dell’approvazione da parte della Direzione nazionale del Pd di un documento in cui si chiedeva un cambio di esecutivo, Napolitano affida a Matteo Renzi l’incarico di formare un nuovo governo.
Napolitano, con quei moniti e richiami, ha provato a tenere dritta la barra, anche se la rottamazione di Renzi è stata un fattore determinante in tutto. Bravo per molti, un po’ meno per altri, sicuramente non neutro per tutti. Del resto la terzietà, nelle fasi complesse, è difficile da indossare e sfoggiare. Anche perché Napolitano non è mai stato troppo incline a quei ruoli accomodanti. Napolitano, storico dirigente del Partito comunista italiano, ha speso la sua politica prima nel partito e poi nelle istituzioni, attraversando tutti i momenti più importanti e più critici della storia italiana dalla Liberazione al dopoguerra, fino allo scioglimento del Pci, a Tangentopoli e alla Seconda Repubblica. Napolitano è stato parlamentare quasi ininterrottamente dalla II alla XII legislatura, ovvero dal 1953 al 1996, saltando solo la IV. Ha recitato un ruolo importante nella storia del Pci, con due momenti particolarmente significativi: il 1956, quando approva l’invasione sovietica dell’Ungheria, e nel 1968, quando invece condanna quella della Cecoslovacchia.
All’interno del Pci è stato prima un riformista, poi capo della corrente cosiddetta dei “miglioristi”. Dagli anni ’90 i ruoli più istituzionali e nel 2006 l’elezione a capo dello Stato, riconfermata, per la prima volta nella storia, nel 2013. Dunque Re Giorgio non è mai stato un democristiano, per richiamare un’immagine cara al suo percorso politico, ma un interprete degli opposti, delle ali estreme. E solo quando è arrivato al Quirinale ha provato a volare sopra le parti, considerando le parti stesse un elemento da rimettere in ordine. Se sia stato un capo dello Stato giusto o sbagliato difficile dirlo, sicuramente non un semplice passacarte, rincorrendo un po’ lo stile di Cossiga, se proprio si vuole indicare un punto di riferimento. Sia chiaro, Napolitano si è sempre definito un allievo di Giorgio Amendola, dirigente del Pci e figlio di Giovanni Amendola, giornalista e deputato ucciso nel 1926 dopo un pestaggio di un gruppo di fascisti. Napolitano aderisce alla corrente riformista del Pci, che vuole la cosiddetta “via italiana al socialismo”, attraverso graduali riforme e con l’aiuto dei partiti socialisti italiani, ispirandosi ai partiti socialdemocratici europei.
L’adesione alla corrente più moderata del Pci non è stata però immediata e lineare. Un episodio su tutti è centrale nella carriera politica di Napolitano: la repressione sovietica in Ungheria nel 1956. In quest’occasione il futuro capo dello Stato si attenne alla linea ufficiale del partito, fedele all’Urss, ed elogiò l’intervento sovietico a Budapest. Un neo mai cancellato, e impossibile da scordare. Negli anni ’80, dopo la morte di Amendola, Napolitano guida la corrente riformista del Pci. La sua corrente viene chiamata quella dei “miglioristi”. È un termine che indica l’idea che sia possibile “migliorare” gradualmente il capitalismo, attraverso una serie di riforme. L’origine è incerta, anche perché per gli avversari di Napolitano dentro e fuori dal Pci ha una certa accezione dispregiativa, che derubrica quella visione a un’azione politica che cerchi di migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice senza però rivoluzionare strutturalmente il capitalismo.
In questi anni ’80 si sviluppa un certo scontro interno al Pci, finché nel 1981 Napolitano critica sull’Unità la guida di Enrico Berlinguer, che aveva affiancato durante l’esperienza della “solidarietà nazionale”, con l’accusa di “settarismo” e di “elitismo” a causa delle famose argomentazioni del segretario sulla “questione morale e l’orgogliosa riaffermazione della nostra diversità”. Dall’altra parte Napolitano si deve difendere in questo periodo dalle accuse di troppa vicinanza al Psi, all’epoca guidato da Bettino Craxi, con cui aveva sempre mantenuto aperto il dialogo. Insomma, il futuro Re Giorgio, non ha mai amato le scelte facili o comode. Nato a Napoli nel 1925, parlamentare di lungo corso ed esponente della corrente “migliorista” del Pci, senatore a vita e presidente emerito, è stato l’undicesimo Presidente della Repubblica Italiana dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015 e il primo della storia italiana a essere stato eletto per un secondo mandato. In precedenza era stato presidente della Camera nell’XI Legislatura (subentrando nel 1992 a Oscar Luigi Scalfaro, salito al Quirinale) e ministro dell’interno nel governo Prodi I, nonché deputato pressoché stabilmente dal 1953 al 1996, europarlamentare dal 1989 al 1992 e poi di nuovo dal 1999 al 2004, e senatore a vita dal 2005 (nominato da Carlo Azeglio Ciampi) fino alla sua elezione alla prima carica della Repubblica.