La geografia delle stragi dell’infanzia

Foto di hosny salah da Pixabay

A partire dalla seconda guerra mondiale i conflitti hanno assunto modalità di svolgimento che colpiscono sempre di più la popolazione civile. Teatro privilegiato di morte e distruzione prima erano i campi di battaglia, da diversi decenni a questa parte sono invece città, centri urbani, aree industriali e obiettivi sensibili densamente abitati.

Le bombe e proiettili cascano su tutti senza distinzione di età e di sesso e i più esposti spesso sono i più fragili, ovvero i bambini, che non possono difendersi, scappare o nascondersi senza l’aiuto degli adulti, quegli stessi adulti che hanno decisi di combattersi, di spargere odio e sangue in lotte senza quartiere che lasciano solo macerie, morte e povertà. Proprio guardando alle vittime civili delle guerre, l’Onu nel 1982 ha istituto la Giornata Internazionale dei Bambini Innocenti Vittime di Aggressioni che si celebra ogni 4 giugno. E’ necessario dire che si tratta di una delle tante ricorrenze che intasano il calendario della comunità internazionale senza lasciare alcuna traccia nelle politiche dei governi. In questi quaranta due anni nulla è cambiato nel campo della protezione dei bambini nei conflitti.

Per comprendere la vastità dell’orrore basta prendere l’ultimo rapporto di Save the Children con i dati riferiti alla situazione del 2022, che offre una geografia delle stragi dell’infanzia. Secondo il documento 468 milioni di bambini, uno su sei in tutto il mondo, vivevano in una zona di guerra, 8.647 bambini sono stati uccisi o mutilati, 27.638 i bambini vittime di gravi violazioni, 7.610 bambini reclutati e utilizzati nei conflitti.

Solo in Ucraina più di 600 bambini sono stati uccisi e 1.420 sono rimasti feriti in dall’inizio dell’invasione russa, riferisce l’Ufficio per i diritti umani dell’Onu. Ad ogni modo, sempre secondo Save the Children, l’Africa rimane l’area con il maggior numero assoluto di minori in contesti di guerra, mentre il Medio Oriente registrava la proporzione più elevata, pari a un bambino su tre. Tra i paesi peggiori in cui potesse vivere un minore nel 2022 a causa della guerra c’è la Repubblica Democratica del Congo, seguita dal Mali e dal Myanmar. Ad essi si aggiungono: Afghanistan, Burkina Faso, Nigeria, Somalia, Siria e Yemen. Inoltre la Ong sottolinea che i bambini continuano a essere colpiti nei luoghi in cui dovrebbero sentirsi maggiormente al sicuro. Il numero di attacchi a scuole e ospedali è infatti aumentato del 74% in un anno, da 1.323 nel 2021 a 2.308 nel 2022.

Vale la pena evidenziare che il rapporto non tiene conto ancora della guerra a Gaza iniziata il 7 ottobre con l’attacco terroristico di Hamas, in cui sono morti oltre 50 bambini (circa 1200 le vittime israeliane complessive). La dura risposta di Israele, con l’invasione di Gaza e i continui bombardamenti, ha invece portato alla morte 15mila bambini stando ai dati riferiti dalle autorità sanitarie di Gaza controllate da Hamas. Infine va ricordato che dall’Aprile del 2023 il Sudan è scosso da una guerra civile che ha già causato 9 milioni di sfollati, una gran parte di questi sono bambini che hanno perso tutto e che non hanno più istruzione e sicurezza alimentare.

In questa cornice, l’Occidente non solo non sembra capace di esportare un modello di tutela dell’infanzia e di promozione dei suoi diritti ma alimenta conflitti con armi e pressioni geopolitiche che non vanno in direzione della pace. I nostri leader non sanno nemmeno più riconoscere che la radice della lotta alla violenza contro l’infanzia sono proprio nel cristianesimo e nella tradizione giudaica. Sono tanti infatti i passi dell’Antico e del Nuovo Testamento che condannano senza se e senza ma il sacrificio dei bambini e il loro coinvolgimento in atti di violenza che invece erano praticati nelle popolazioni pagane. Un Dio che si è fatto bambino ha consentito una rivoluzione delle coscienze che ha messo l’infanzia al centro di ogni tensione alla custodia e alla cura. Versare sangue innocente di bambini è il peccato più grande che si possa commettere. Bisogna tornare a gridarlo in ogni lingua.