Dunque, dopo le due versioni di Conte, destinate a non passare alla storia, ecco il Draghi uno. Molti i politici, come prevede il manuale Cencelli. Tante le conferme, in nome e per conto dei rapporti di forza. Ma ai tecnici, ovvero agli uomini dei premier, vanno tutti i ministeri chiave. In pratica un vero e proprio gabinetto di guerra all’interno dell’esecutivo. Senza scomodare Churchill, il parallelo sarebbe ingeneroso per il grande statista di sua Maestà, Draghi, con l’avallo di Mattarella, ha deciso di provare a governare il Paese, ancora prima la crisi, con la logica dei vasi comunicanti.
Da una parte il gruppo di testa, i draghiboys, dall’altra la rappresentazione della politica con i ministri indicati dai partiti. Dunque frutto del bilanciamento fra le segreterie. E non poteva essere diversamente. Lo stupore di chi si aspettava un esecutivo composto solo da tecnici ha del fanciullesco, con forti venature d’infantilismo cronico. Siamo onesti. Quel pezzo di Paese sempre pronto a mettere all’indice la Casta, a sostenere come sia tutto un magna magna, non è certo migliore di chi critica. Il senso di deresponsabilizzazione inizia proprio da li. Il governo Draghi, come lo fu il governo Ciampi e in quota parte l’esecutivo Monti, sono la risultante del fallimento dell’antipolitica, del populismo sfrenato, della demagogia un tanto al chilo di una classe dirigente inadeguata al momento storico. Il governo Draghi, ricordiamolo sempre, arriva perché la politica dei politicanti ha fallito, tanto quanto quel pezzo di Paese sempre desideroso di veder risolti i propri problemi senza mai pagare pegno.
Il nuovo governo, sia chiaro, non dovrà solo cercare di salvare il Paese dal baratro, ma avrà anche il compito di ricomporre il quadro politico, rimettendo i tasselli al loro posto. Impegno non facile, ma determinante per il futuro dell’Italia. Soprattutto in chiave europea. Perché la vera partita si gioca a Bruxelles e Strasburgo, non a Roma. A giocare questo match sarà il gabinetto di guerra del premier, non la squadra politica, a cui spetta un altro campionato.
Nei rapporti con i mercati internazionali, con le cancellerie del vecchio continente, la vera moneta è la credibilità. E Draghi è l’unico ad averla. Dunque facciamolo lavorare. Ora manca il giuramento, in agenda alle 12, e poi si terrà il primo Consiglio dei ministri. A metà settimana (da mercoledì al Senato) toccherà alle Camere votare la fiducia e a quel punto inizierà la corsa contro il tempo. L’emergenza sanitaria, economica e sociale – lo ha detto Draghi accettando l’incarico il 3 febbraio – sono le priorità: i temi si intrecciano e molto passerà per il Recovery plan.
Che sarà rivisto e reso operativo lavorando fianco a fianco con il sottosegretario alla presidenza Garofoli ma soprattutto con il nuovo ministro dell’Economia e il ministro per la Transizione energetica, che fonderà i temi ambientali e alcune competenze in materia energetica: e qui i nomi scelti, quello di Daniele Franco e Roberto Cingolani, sono fuori dal perimetro dei partiti. Il M5s viene dunque solo parzialmente accontentato: il contenitore chiesto da Beppe Grillo c’è ma alla guida non va un esponente del Movimento. “Lo abbiamo fortemente voluto”, rivendica Luigi Di Maio (che viene confermato alla Farnesina, unico ministro sempre in carica dal 2018, quando i 5 Stelle dovrebbero essere quelli dell’alternanza) perché “questo è il governo della transizione ecologica”. Lo potrebbe essere, diciamo così. Il bagno romano di Grillo ha salvato la baracca, per ora, ma non ha certo portato in dote al Movimento 5 Stelle una vittoria. In pratica i pentastellati, ormai un vero e proprio partito, sono entrati nel governo Draghi come atto di testimonianza, palesando la sudditanza alla gestione del potere. Un po’ come il Pd, ma con altri mezzi e altro stile.
Non a caso finisce nelle mani di una ‘tecnica’ il ministero della Giustizia, tema particolarmente divisivo per i partiti che compongono la maggioranza: a guidare via Arenula sarà l’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia. All’innovazione tecnologica e digitale va invece Colao. Molti altri ministeri vengono suddivisi fra i partiti. I 5S vedono rappresentate quasi tutte le proprie anime, il Pd anche con l’entrata di Andrea Orlando che guida il Lavoro. I Dem non portano donne però in Cdm. Nicola Zingaretti assicura di volervi porre rimedio: il “tema della differenza di genere è il cuore del programma per la ricostruzione italiana”, dice il segretario rinviando alla nascita del sottogoverno. Buone propositi e cattive azioni, come spesso accade.
Ma ad incassare il vero ministero di peso, quale è Sviluppo economico, è la Lega. Ad occuparlo Giancarlo Giorgetti, il vero dominus della Lega, l’uomo del Nord, l’unico capace di tenere a freno i mal di pancia degli imprenditori di Veneto e Lombardia. Salvini, ora, dipende da lui. E la Lega guarda a Giorgetti con rispetto e ammirazione. Infine il grande ritorno di Forza Italia, a cui vanno tre dicasteri ma tutti senza portafoglio: Brunetta alla Pubblica amministrazione (che ha già guidato), Gelmini agli Affari regionali e Carfagna al Sud. Tutti e tre sono stati al governo con Berlusconi. Draghi infine sceglie la continuità per un ministero fondamentale nella gestione dell’emergenza Covid, quello della Sanità: a guidarlo sarà ancora Roberto Speranza di LeU, nonostante le tante, tantissime critiche. Proprio per questo il titolare del dicastero, incassata la conferma, ricorda come la salute sia “un diritto tutelato dalla Costituzione”.
Infine, ma non affatto l’ultima cosa (anzi sarà la prima del secondo giro) Renzi e i renziani. Nel governo hanno ottenuto un solo posto. Ma questo è il primo tempo. Quando ci sarà da fare il secondo giro di nomine, di scegliere i manager per le controllate di Stato vedrete che Renzi e i renziani sapranno far tornare i loro conti.