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Foligno: educare non è un mestiere per tutti

Nei giorni scorsi un bambino di colore è stato preso di mira da un insegnante che ha deciso di umiliarlo per via del colore della sua pelle. Un comportamento ignobile, scellerato neanche a dirlo. Messo in atto da un adulto nei confronti di un bambino e aggravato dal fatto che l’adulto è un educatore. Educatore: ruolo immenso, grandioso, decisivo per la vita di ogni bambino e di ogni adolescente. Ma il drammatico fatto accaduto a Foligno rimanda a una figura di adulto che ben poco ha sia di adulto che di educatore. Ci consegna un uomo con una personalità e un livello di maturità di cui non pochi aspetti vanno evidentemente risolti. In questo, ritengo, si esplichi sostanzialmente la questione. Un problema di comportamento e di scelte la cui responsabilità è sempre personale e che rinvia indiscutibilmente alle caratteristiche e al vissuto individuale. Troppo comodo cercare facili alibi altrove.

Educatori e insegnanti sono adulti con un immenso carico di responsabilità nei confronti dei minori. Viene da chiedersi, dunque, se e in che modo assolvono oggi al loro compito. Certamente molti lo fanno, anche se con grande fatica, poiché il dialogo e la condivisione educativa con le famiglie sono sempre più complessi, minacciati. Tuttavia un’ulteriore riflessione appare, oggi più che mai, urgente: educare e insegnare non è un mestiere qualsiasi. E non è un lavoro per tutti. Perché non chiunque evidentemente possono assolvere adeguatamente alla sfida altissima che questi ruoli pongono. Non basta più la sola competenza disciplinare. Non basta più la preparazione tecnica. Non è assolutamente sufficiente istruire. Oggi più che mai serve educare. La nostra società pone una vera e propria emergenza educativa che deriva dalla crisi dei valori e delle identità, acuita dal trionfo del relativismo più spinto secondo il quale tutto è lecito, possibile e ammesso nella misura in cui tutto viene considerato relativo. 

Non è più sostenibile la figura dell’insegnante che educa con approssimazione, con disincanto, con distacco. Siamo sinceri: la funzione dell’educatore è oggi un compito fortemente in crisi. E lo è nella misura in cui è il ruolo degli adulti a essere in crisi nei confronti dei minori; in particolare quello figura maschile: il padre, l’insegnante. Ruoli in cerca di identità. Eh sì, perché in una società dove i valori sono sovvertiti, dove il relativismo è imperante e la fà da padrone, anche i ruoli spesso sono traditi, svuotati, scambiati. La nostra è una società in cui gli adulti vivono, dal punto di vista educativo, il disimpegno, la rinuncia, il compromesso, lo scambio. Ai genitori, prima di altri, piace fare gli amici dei figli. Concetto pseudoeducativo ormai in voga da molto tempo, derivato da una visione equivoca e distorta della vita familiare, secondo cui fare l’amico del figlio piuttosto che il padre è moderno, friendly, trendy, è frutto cioè di un raffinato costrutto psicopedagogico. 

La verità è un’altra: i figli non vogliono i genitori per amici. Vogliono i genitori. Punto. Perchè ne hanno bisogno per la loro crescita. Perché hanno bisogno di modelli adulti con cui confrontarsi e a volte anche scontrarsi. Altrimenti la crescita non avviene. Perché la crescita rappresenta un processo e un territorio di conquista. E questo non può avvenire tra pari. Tra pari si innesca la complicità, il conforto, il cameratismo. Ma per crescere occorre altro. Servono modelli generazionali a confronto. Perché l’adulto è per il minore un modello, che da una parte rasserena nella misura in cui sa infondere sicurezza e protezione, dall’altra rappresenta l’immagine da criticare, attaccare, mettere in discussione, da demolire o quantomeno ridimensionare per poter crescere e conquistare il proprio spazio esistenziale. All’uomo di Foligno (perché educatore sarebbe troppo) tutto questo non è chiaro.

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