È paradigmatico il periodo, ancora non del tutto decifrato, del post-pandemia: l’uscita dal tunnel della fase emergenziale, dei lockdown e delle restrizioni, delle ansie per la salute e per l’economia, non è avvenuta forse come avremmo immaginato. In effetti, nel periodo in cui il virus diffondeva una nuova forma di angoscia collettiva, sembrava, di rimando, emergere una certa propensione sociale alla solidarietà, che apriva anche a una speranza condivisa di ripartenza.
Ma quella forma un po’ effimera di speranza sembra che si sia gradualmente sfumata. Non solo è mancato uno spartiacque tra il buio e la luce, una sorta di Independence day da festeggiare, ma soprattutto la crisi pandemica si è quasi fusa con le altri gravi minacce che hanno annerito il nostro orizzonte. Una guerra nel cuore dell’Europa, accanto a tutte le altre dimenticate, perché più lontane geograficamente da noi, ci ha risvegliato dall’illusione di aver lasciato, almeno noi, ogni guerra ormai alla storia; le preoccupanti tensioni sui prezzi e sulle tariffe, che gravano con effetti pesanti e immediati sulle capacità delle famiglie e delle imprese; le minacce sul presente e sul futuro del fragile equilibrio ecologico del nostro pianeta; il conseguente acuirsi delle pressioni sociali, con interi popoli spinti alla ricerca di una parvenza di futuro al di là dei deserti, dei lager e dei mari: tutto questo ha intorbidito quella tenue aurora che sembrava finalmente riemergere per tutti.
Ancora una volta la storia ci provoca e ci inquieta: quale speranza ci può guidare, verso dove andiamo, cosa dobbiamo fare? Vegliate perché il Signore viene sui suoi sentieri. A questo nostro mondo inquieto, il Signore guarda con compassione e parla, oggi: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!». Il Signore viene nei suoi sentieri che attraversano la nostra terra, la sua salvezza si fa vedere tramite il Volto dei volti: è l’annuncio di una presenza, di una dimora tra noi, del suo farsi carne. La Speranza non è al di là del cielo: diventa carne da toccare e incontrare, amore da vivere e testimoniare, coraggio che invita a rischiare.
In questo tempo di Natale è importante porsi in ascolto con cuore umile e grato alla Parola che risuona, accogliamo in essa l’annuncio della Speranza che si fa carne. «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà… Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,42). L’annuncio di Gesù circa la sua venuta è presentato con i caratteri dell’urgenza, sprona a una preparazione immediata, sollecita. Non rinvia all’attesa indefinita di un vago destino lontano, ma chiama adesso, smuove il presente. Se il Signore parla di un giorno e di un’ora, che sono irruzione della sua venuta e restano ignoti, l’attenzione dei discepoli non è indirizzata semplicemente al futuro, ma è tutta riportata al vegliare e al tenersi pronti oggi. La speranza non induce all’inerzia, ma mette in movimento il cuore, la mente e le braccia nel presente. È oggi il momento favorevole per ascoltare, per servire e per amare.
La nostra quotidianità, se è orientata dalla speranza, non si lascia narcotizzare dal mero attivismo ripetitivo e inconsapevole, come ai giorni di Noè, quando «mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito» e «non si accorsero di nulla». L’ordinarietà del quotidiano, se animata dalla Parola, si libera dall’alienazione del non senso e si lascia illuminare dalla speranza. La quotidianità del discepolo è pienamente “sensata”, proprio perché rivolta e orientata verso quel giorno e quell’ora. Se noi cristiani siamo i discepoli della speranza non possiamo rifugiarci in brevi momenti consolatori: la fede in Gesù, infatti, non può ridursi ad anestetico dei momenti tristi della vita. È molto di più! La fede in Gesù è forza che sprigiona nella storia, ma nasce in colui che è il principio di ogni storia. La speranza non possiamo autoprodurla ma soltanto accoglierla come dono del Risorto: «Non possiamo limitarci a sperare, dobbiamo organizzare la speranza» (don Tonino Bello).
E’ nelle Scritture che si svela il senso di speranza che attraversa la storia. È la Parola che interpreta il senso e la meta a cui la storia conduce in Cristo. Ben oltre ciò che ancora qualcuno pensa della Bibbia: una sorta di prontuario di vaghe e generiche sentenze adattabili a tutte le situazioni del presente e a tutte le congetture fantasiose sul domani. Questo compito narcotizzante e disincarnato se lo assumano pure gli oroscopi e i Nostradamus delle varie epoche. La Scrittura, invece, parla dalla prospettiva del Verbo che si è fatto carne, di Colui che mostra il Padre vivendo la storia dall’interno, da vero uomo, crocifisso e risorto. È la testimonianza fedele, normativa, compiuta, del Cristo che apre a noi il cammino del Regno. Porta a compimento la storia senza fuggire da essa, ma vivendola fino in fondo, assumendone anche il carico di insensatezza e contraddizione: soltanto così la salva cioè la conduce all’altezza della vita piena. Cristo ci invita alla fatica per il Regno, non all’evasione. In tal senso, vale il detto di don Lorenzo Milani: «fino a che c’è fatica c’è speranza».