Conta più la testa di un bambino o quella di un capitello? La domanda diventa inquietante quanto legittima alla luce di ciò che è accaduto a Palmira, in Siria. Il mondo intero si è terrorizzato pensando a quanto danno avrebbero potuto fare i miliziani dell’Isis contro le rovine di quella che è definita “la Sposa del deserto” ed è considerata, come sito archeologico, patrimonio dell’umanità. Nessuna preoccupazione per le migliaia di civili che abitano accanto alle rovine, in una città che si è sviluppata in un’oasi a 240 km a nord-est di Damasco e ha vissuto – fino a oggi – di turismo.
Sui giornali e nei servizi tv si è parlato di Palmira come fosse Pompei, una città morta, senza abitanti, immensa nel suo rappresentare la Storia ma sostanzialmente disabitata. Non era e non è così, ma l’Occidente – evidentemente stanco di sentire notizie sulle “solite uccisioni” degli assassini vestiti di nero – non si è interessato più di tanto. E’ bastata qualche confusa dichiarazione del governo di Assad (La televisione del regime ha proclamato che l’esercito ha aiutato i civili ad andarsene prima di abbandonare le posizioni) per calmare all’istante qualunque interesse verso la popolazione civile. L’attenzione era tutta concentrata sul museo, mentre intorno c’era l’orrore.
In realtà infatti solo un terzo dei residenti sarebbe riuscito a fuggire, e le conseguenze di questo disinteresse si sono drammaticamente viste: gli uomini dell’Isis hanno sterminato almeno 400 civili, la maggior parte dei quali donne e bambini. Pensare a questa ennesima mattanza come “imprevedibile” rispetto alla conquista del sito è pura ipocrisia: le organizzazioni per i diritti umani avevano già riferito che centinaia di cadaveri di soldati del regime erano disseminati per le strade della città.
Il fatto è che la guerra la sentiamo lontana, poco minacciosa nei nostri confronti. Il sentimento di pietà per le persone uccise è poco più di un brivido passeggero. Un morto a Parigi ne vale cento in Siria, o in Iraq o in Nigeria. L’indignazione dell’Occidente è geografica, non di sostanza. I bambini uccisi non fanno più notizia, i cadaveri diventano routine, i prigionieri sgozzati immagini già viste. Come un film di cui conosciamo il finale, non ci appassiona più.
Ed è questo atteggiamento che non ci fa riconoscere nei disperati che troviamo sui barconi – che definiamo asetticamente “migranti” – i volti e le storie di chi ha lasciato dietro di sé figli, mogli, parenti affogati nel sangue; di chi fugge dall’orrore, di chi pensa che qualunque posto sia meglio di quello, di chi cerca uno spicchio di futuro per se stesso e le generazioni future.
C’è chi vuole respingerli con la stessa indifferenza con cui non si emoziona più – anzi addirittura non si interessa – alla notizia dell’uccisione di centinaia di famiglie; che avrebbero potuto essere salvate se la comunità internazionale avesse preso coscienza del problema in maniera univoca e senza tentennamenti. Ci definiamo esseri umani, ma siamo davvero capaci di essere… umani?