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E’ la croce di Gesù l’antidoto al veleno della guerra

La croce di Gesù è denuncia della violenza, non accettazione passiva di essa; è sollecitazione ad un impegno d’amore e di giustizia. È proprio in Gesù Cristo, che muore in croce con le braccia aperte sul mondo e perdonando i propri persecutori (cf Lc 23,24), che il progetto divino di un’umanità pacifica e non violenta si manifesta e si compie. Attraverso questo gesto sacerdotale, l’umanità è riconciliata con Dio, con l’Amore che redime, morendo e perdonando. È mediante il versamento del sangue di Gesù-uomo, nel quale la pienezza d’Amore si è compiaciuta di dimorare, che non solo l’umanità, ma tutte le cose in Lui ‒ come afferma san Paolo ‒, sono riconciliate (cf Col 1,20). Distruggendo in se stesso l’inimicizia, fonte di violenza, Gesù abbatte il muro delle divisioni, unifica i popoli in un destino di pace, affratella in un solo corpo quelli che erano nemici (cf Ef 2,16; Rom 12,5). Con il suo sacrificio, il Signore «ricrea» l’umanità, trasformandola da nemica, qual era divenuta in Adamo, in amica di Dio; mostra al mondo tutto l’impegno e la totale fedeltà del Padre al grande progetto di pace e di nonviolenza.

Dio vuole il rinnovamento dell’umanità non mediante coercizione o azioni vendicatrici, ma con la forza di un Amore, che si dona fino all’estremo e perdona. In Gesù Cristo, che sale spoglio sulla croce, Egli presenta al mondo la nuova umanità e contrasta la libertà deicida con le armi del perdono che risana e riconcilia. Nel Figlio, che si incarna e si immola, il Padre, ricco di misericordia, si impegna a far uscire ogni uomo dal tunnel dell’odio e della violenza, immettendo la sua stessa vita d’amore. La croce di Cristo è per il credente denuncia e vittoria sulla violenza, segno della solidarietà di Dio con l’uomo oppresso e sfregiato nella sua dignità. La croce non è propriamente apologia della sofferenza, del sacrificio e della morte. Abbracciandola, Gesù la trasforma in atto d’accusa della violenza del sistema religioso-politico del suo tempo, da cui è rifiutato e ingiustamente condannato. Per la risurrezione, che non è compenso e riparazione dell’apparente insuccesso della morte di Gesù, ma l’affermazione sfolgorante della potenza della vita divina, la croce indica ad ogni uomo la via che porta al trionfo sulla violenza e sull’odio.

Con la crocifissione, Gesù assume su di sé anche la condizione di ogni persona ingiustamente condannata. Poiché Dio Padre si curva sul Figlio per accogliere il dono della sua vita e per eternarla nel dinamismo potente della risurrezione, la croce testimonia la solidarietà di Dio nei confronti di chiunque sia calpestato nei suoi diritti fondamentali. Quando il credente si immerge nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, specie con il Battesimo e poi partecipando all’Eucaristia ‒ ove è celebrato il memoriale della passione del Figlio di Dio, che muore per redimere dal peccato e spezzare il circolo vizioso della violenza ‒, è reso partecipe della vitalità e della fecondità sanante e liberatrice dell’Amore-non violento. Nello stesso tempo è chiamato ad essere uomo del perdono, ad amare i propri nemici e a pregare per i propri persecutori. Profondamente pacificato, attivo nel dono di sé, è invitato a impegnarsi a fianco degli oppressi e degli ultimi, non per annientare gli oppressori e gli sfruttatori, ma per scuoterne le coscienze e portarli a Cristo, il «Servo sofferente», perché siano guadagnati definitivamente all’amore, alla giustizia, alla pace. Gesù, nel suo incontro con l’umanità, ha guarito gli ammalati e i peccatori, ristabilendoli nella loro integrità e nella loro dignità. Non ha condannato il peccatore, ma con i suoi gesti e con le sue parole ha rivelato la violenza latente nei suoi interlocutori (i farisei, i sadducei, gli zeloti), riformulando sistematicamente le loro subdole domande e sollevando i veri problemi, per mettere i suoi detrattori di fronte alla loro coscienza. Ai suoi occhi la violenza nasce nel cuore e si esprime già nella parola.

Il messaggio della pace e della nonviolenza nel Vangelo è connesso con l’annuncio e l’avvento del Regno di Dio. Nella reinterpretazione della volontà del Padre fatta da Gesù, l’amore del prossimo non è circoscritto al «prossimo» più vicino, inteso come membro del proprio gruppo etnico, religioso e sociale. Come si è già considerato, dal giorno in cui Dio si è rivelato come un Padre, che ama e benefica i suoi figli senza distinzioni, i confini dell’amore si sono dilatati fino ad abbracciare il nemico. La formula della tradizione sacerdotale, «Ama il prossimo tuo come te stesso», viene portata a compimento da Gesù: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,43-45). L’amore per la pace, per ogni uomo e popolo, si fa concreto quando, a fronte di fenomeni transnazionali, ossia richiedenti risposte non semplicemente nazionali, si rafforzano e si riformano urgentemente le attuali istituzioni in modo che in esse siano equamente rappresentati gli interessi della grande famiglia umana. Occorre che esse sappiano contrastare i nuovi totalitarismi, compresi quelli finanziari, che mettono a repentaglio il destino dei popoli, la loro libertà, escludendoli o emarginandoli dal mercato internazionale, da uno sviluppo integrale ed inclusivo. Ai popoli più deboli, non si tratta di dare il superfluo, ma di aiutarli ad entrare nel circolo dello sviluppo economico ed umano, di un’ecologia integrale. Se non si combatteranno le attuali povertà e diseguaglianze, rimuovendo le cause profonde di una crescente dominazione da parte di una ricchezza egoista e amata per sé stessa, non è da escludere che, come prevedeva la” Populorum progressio”, i popoli poveri si ribellino nei confronti dei popoli dell’opulenza. L’ingiustizia che si aggrava, non solo aumenta gli squilibri tra i popoli, e grida verso il cielo, ma partorisce tensioni e conflitti. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia.

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