Quasi otto milioni di italiani hanno avuto un peggioramento del tenore di vita e il 60% della popolazione ritiene che la perdita del lavoro o del reddito sia un evento che lo può riguardare nel prossimo anno. Non erano necessari i dati forniti da una recente ricerca del Censis per rendersi conto dell’impoverimento complessivo causato, per ovvie ragioni che è inutile elencare, dalla pandemia del Covid-19.
Ovviamente le categorie più colpite dalla riduzione dei consumi, dovuta ai lock down e alle misure di contenimento dei contagi, sono i liberi professionisti a partita iva, gli esercizi commerciali e le piccole e medie imprese del settore del turismo e dell’intrattenimento. Questo almeno finché durerà il blocco dei licenziamenti e il prolungamento della cassa integrazione per i lavoratori subordinati.
In questa cornice i tradizionali acquisti di Natale rappresentano una boccata d’ossigeno che le associazioni di categoria chiedono di salvare in ogni modo, allungando l’orario di apertura dei negozi, e che il governo vuole incentivare con un rimborso in denaro fino a 150 euro per chi fa acquisti nel mese di dicembre.
Sono esclusi dagli incentivi governativi gli acquisti on line che dall’inizio dell’emergenza sanitaria sono aumentati esponenzialmente. Con i consumatori bloccati in casa, chi ci sta guadagnando di più è infatti il gigante del commercio elettronico Amazon, il cui patron, Jeff Bezos, nel 2020 ha consolidato il primato di uomo più ricco del mondo con un patrimonio privato di oltre 200 miliardi di dollari. Il colosso americano dell’e-commerce ha chiuso il terzo trimestre con ricavi in aumento del 37% a 96,1 miliardi di dollari. L’utile per azione si è attestato a 12,37 dollari. I risultati sono sopra le attese degli analisti, che scommettevano su 92,7 miliardi di dollari di ricavi e su un utile per azione di 7,55 dollari.
Per tutti questi motivi Codacons e Confesercenti hanno chiesto al governo di limitare lo strapotere di Amazon. “Qualora rimangano in vigore le restrizioni anti-Covid sul fronte dei negozi, le società dell’e-commerce come Amazon otterrebbero enormi benefici perché tutti gli acquisti degli italiani verrebbero trasferiti dai negozi fisici al web – spiega Codacons – se da un lato i consumi e le produzioni italiane potrebbero beneficiare dello shopping online, dall’altro vi sarebbe un danno enorme per il commercio al dettaglio tradizionale e una palese lesione della concorrenza e del mercato”.
In Francia la protesta ha visto unito un vasto fronte sociale: ambientalisti, politici (tra cui la sindaca di Parigi Anna Hidalgo) e personalità del mondo della cultura hanno lanciato una petizione per impegnarsi a non usare Amazon per Natale. “Caro Babbo Natale, quest’anno stiamo assumendo l’impegno di un Natale senza Amazon”, scrivono i firmatari che mettono in evidenza le conseguenze sociali e fiscali del boom del commercio on line, fatto su piattaforme che non pagano le tasse nei paesi in cui vendono i prodotti. Vale la pena citare le stime del centro studi di Mediobanca, il quale ha analizzato i conti e bilanci delle prime 25 società internet al mondo, scoprendo che in cinque anni sono stati sottratti al fisco 46 miliardi di euro nonostante ricavi e profitti volino.
In molti denunciano quindi uno squilibrio di concorrenza tra il commercio tradizionale e quello sul web. Non si tratta quindi di fermare le nuove forme del commercio ma di regolamentarle e di gestirne la tassazione in modo tale che il loro impatto diventi un volano di sviluppo per tutti. Molti piccoli negozi hanno infatti messo a punto modalità di vendita on line molto efficaci e gran parte del campo della ristorazione ha implementato modalità di delivery che hanno garantito ottimi introiti.
Per non parlare poi delle opportunità che il commercio on line offre ad artigiani e aziende dall’agroalimentare, portando i loro prodotti su mercati globali. Da un report di Amazon emerge che le Pmi italiane che vendono sui suoi store, da giugno 2019 a maggio 2020 (compreso il periodo del primo lockdown) hanno registrato vendite per una media di oltre 75.000 euro ciascuna ed hanno venduto in media più di 100 prodotti al minuto. Insomma il commercio su internet presenta luci ed ombre e il fallimento di milioni di piccoli esercizi non può essere considerato come un semplice effetto collaterale del progresso.
Alla luce di queste considerazioni appare quindi meno paradossale il fatto che la richiesta di un reddito unico universale arrivi proprio dai colossi della new economy digitale. Sono infatti i guru della Silicon Valley che, più di tutti gli altri centri di potere, stanno paventando l’ipotesi di un reddito garantito per far fronte alla cancellazione di migliaia di posti di lavoro causata delle nuove tecnologie. Molti analisti fanno notare che non si tratta di pura filantropia e di capitalismo dal volto umano ma di una soluzione atta a ridurre i conflitti sociali e a far accettare nuove forme di deregolamentazione del mercato del lavoro. In questo modo non verrebbe contestato lo status quo di quei pochi che detengono la maggior parte della ricchezza mondiale.
Queste analisi non tengono pero in considerazione l’antropologia umana e le conseguenze sociali di un reddito senza lavoro su larga scala. Il valore intrinseco della intraprendenza imprenditoriale, della capacità professionali e del raggiungimento di obiettivi individuali e collettivi non può essere sostituito con alcuna misura di welfare. Il lavoro resterà sempre uno strumento di emancipazione e di dignità personale.
La vera sfida sarà quindi traghettare tutta la popolazione attiva nel processo di digitalizzazione, con una formazione continua che permetta a tutti lavoratori di offrire il loro contributo al benessere della società.