L’ordine morale nella vita sociale e politica non può essere creato per imposizione, come negli Stati totalitari e dittatoriali. È conquistato e diffuso mediante una ricerca libera e responsabile della verità aperta al Vero e al Bene sommi e non dall’uso della forza. Rinvigorimenti effettivi e durevoli nella convivenza si riscontrano solo quando gli uomini si aprono gli uni agli altri e riattivano la loro comunione nel mondo dello spirito. Detto diversamente, la qualità morale della convivenza civile e politica dipende dal grado di apertura, libera e retta, delle persone ai valori superiori, spirituali e religiosi. Per quanto affermato non è difficile accorgersi che le prospettive della “Pacem in Terris” sul rapporto tra verità e democrazia sono sensibilmente diverse da quelle di Hans Kelsen – per il famoso giurista di origine austriaca la verità uccide la democrazia –, come anche da quelle di Bruce Ackerman che, qualche decennio più tardi, enfatizzerà l’importanza della neutralità del dialogo pubblico e delle regole procedurali, presupponendo che tutte le concezioni di vita si equivalgono.
La “Pacem in Terris” è l’ultima enciclica pubblicata da papa Giovanni XXIII. Per la “Pacem in Terris”, che anticipa in certo modo Giovanni Paolo II, un diffuso scetticismo in campo metafisico-morale prelude a regimi assoluti assorbenti, facilmente degeneranti in totalitarismi intolleranti. Vera libertà e vera democrazia prosperano là ove la luce della verità si afferma gradualmente, dissipando le nebbie dell’errore. Oggi è cruciale il fondamento che è dato ai diritti e ai doveri da parte della “Pacem in Terris”, in un contesto in cui i diritti appaiono sfuocati e perdono il loro riferimento ultimo, sicché anche gli arbitrii divengono diritti. Attualmente più che alla persona – considerata da Antonio Rosmini il «diritto sussistente» – si fa riferimento all’individuo, ad un «io» meramente biologico e mercantilizzato, oppure a sue qualifiche particolari relative alla razza, all’etnia, al colore della pelle, alla religione, all’opinione politica, all’«orientamento sessuale». Nella PT i diritti e i doveri sono radicati nella persona umana integrale, in una natura, non intesa in senso fisicista e statico, dotata di intelligenza e di libertà, nella legge morale naturale inscritta nella coscienza di ogni uomo e donna. Detto altrimenti, i diritti e i doveri sono fondati su un primum ontologico, etico, metapositivo, che non esclude l’omologazione giuridica e il consenso sociale, ma li precede. Non sono, pertanto, condivisibili le posizioni del positivismo o decisionismo giuridico (il fondamento ultimo dei diritti è dato dalla norma che li pone), dello storicismo (il fondamento metapositivo dei diritti è dato dalla «coscienza storica» nella serie dei suoi processi), del neogiusnaturalismo libertino (fondamento del diritto è sì la persona, ma concepita secondo termini di spontaneismo e di istintività): posizioni tutte implicanti relativismo e, in certa maniera, tradimento della piena dignità della persona.
Così, non sarebbero del tutto condivisibili le posizioni – più vicine a noi – della teoria dei diritti del neocontrattualismo di John Rawls (sono diritti solo quelli che sono oggetto di accordo razionale unanime fra le parti in posizione originaria, dietro il velo di ignoranza, o quando vi sia un overlapping consensus), della teoria dei diritti di Bruce Ackerman (diritti sono solo quelle pretese o rivendicazioni che superano la prova del dialogo neutrale, che è da assimilare al fiat metodologico del contratto rawlsiano), della teoria dei diritti del neoutilitarismo (sono diritti solo quelli che consentono di ottenere utilità collettiva massima). Non possono essere accettate come base dei diritti – Giovanni Paolo II lo afferma esplicitamente – culture democratiche fondate sull’agnosticismo o sul relativismo scettico (chiara allusione al pensiero di Hans Kelsen): un’autentica democrazia è possibile solo ove si abbia un diritto certo e una retta concezione della persona umana. Merita che ci si fermi qualche istante a riflettere sulla fragilità della fondazione contemporanea dei diritti.
Poiché l’affermazione e la rivendicazione dei diritti soggettivi viene giustificata appellandosi alla libertà o ai desideri non guidati dalla verità o ad un mero consenso sociale o ad un dialogo neutrale sorgono varie incongruenze: i diritti prolificano sino a diventare pretese a qualsiasi comportamento; si moltiplicano i conflitti irresolubili tra i diritti di persone diverse; non vi è alcuna ragione per rispettare i diritti altrui sacrificando i propri; né vi è alcuna ragione che giustifichi doveri per soddisfare simili diritti. Per realizzare i diritti non basta appellarsi al dovere categorico verso gli altri e all’obbligo di osservare le corrispondenti norme. Ciò che è fondamentale è la considerazione della finalizzazione della condotta verso il Bene supremo dell’uomo, ossia l’ordo ad Deum. Del dovere e dell’obbligo si può dar ragione solo se si spiega che riguardano azioni necessariamente richieste dall’ordo ad Deum, ossia dall’ordinamento a Dio sommo bene al quale è dovuto amore.