Gli ultimi giorni e momenti della vita di don Oreste Benzi, fondatore della comunità Giovanni XXIII a cui appartengo, sono indimenticabili. Nonostante lo vedessimo più affaticato del solito e fossimo preoccupati, non potevo immaginare la sua morte così improvvisa. Anche in quella circostanza don Oreste si congedò da questo mondo senza scomodare nessuno. Il suo trapasso fu essenziale, così come era tutto il suo modo di essere e di vivere.
La serata del primo novembre 2007 chiese ad alcuni suoi collaboratori di ritrovarsi insieme a cenare nel suo ristorante preferito accanto alla parrocchia. Nonostante la prima meraviglia nel rivederlo improvvisamente così energico, infatti, quella cena fu una sua iniziativa dove mangiò con grande gusto arrivando fino al dolce e con il suo grande umore e gioia di sempre: vivere e stare insieme. Custodisco le ultime confidenze che mi fece profetizzando anche un fatto che poi accadrà all’interno della Chiesa. In quell’ultimo saluto, circa tre ore prima del suo ultimo suo respiro, era così sereno e abbandonato nelle mani del Padre che soltanto dopo compresi come, realmente, sapesse già che stava lasciando questa terra. Il 27 ottobre me lo anticipò mentre ritornavamo da Napoli condividendo alcuni pensieri: “Quanto mi piacerebbe portare ai giovani delle nostre case la storia e la vita dei Santi… Per essere felici dobbiamo sempre mantenere un occhio fisso su Gesù e uno fisso sui poveri”. Quel viaggio lo ricordo come se fosse stato vissuto oggi stesso, sento ogni suono della sua voce fino al momento in cui esclamò: “Questo è uno dei miei ultimi viaggi”. Questa esternazione mi turbò profondamente ma, nello stesso tempo, cercai di rimuoverla perché non potevo immaginare la mia vita senza colui che da diversi anni era più di un padre, un fratello, un amico… Un uomo di Dio.
“Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra – scriveva testualmente don Benzi nel commento alla Sacra Scrittura proprio di quel giorno parlando di sé -, la gente che mi sarà vicina dirà: 'E' mortò. In realtà, è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì – aggiungeva -. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste, perché appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all'infinito di Dio”.
Nella mia vita non avrei mai immaginato cosa potesse significare vivere accanto a una persona santa. Don Oreste era profondamente umile, anche se i media lo esaltavano per le sue radicali convinzioni che non esitava a esternare. Le sue affermazioni a favore degli ultimi e dei più oppressi davano certamente fastidio e spesso i suoi moniti facevano saltare dalle poltrone non pochi personaggi. Il “prete dalla tonaca lisa” percorreva le strade del mondo annullandosi con gioia, senza mai risparmiarsi con un amore verso quel Gesù che lui vedeva incarnato e presente in ogni persona così come nell’Eucarestia.
Don Benzi aveva l’incredibile capacità di far sentire ogni essere umano che aveva dinanzi molto importante, amato e quindi finalmente preso sul serio, considerato e ascoltato. Come tutti i santi era irrefrenabile e iperattivo anche nella preghiera e nella contemplazione; sfiancava il Creatore per quanto ci parlava e la Mamma del Cielo “ci cascava sempre” per le sue insistenti suppliche. Sì, perché lui la Madonna la paragonava proprio a una madre che nel sentire l’insistenza della richiesta di un figlio “alla fine ti esaudisce”.
Carità, intesa nel vivere concretamente accanto al povero, e giustizia, ricordando sempre che Gesù è venuto sulla terra per donarcela, erano i suoi baluardi e ci teneva moltissimo a ripetere che “non si può fare per carità ciò che va fatto per giustizia”; questo specialmente nei confronti di quegli ultimi “che non possono aspettare”. E proprio per questo don Oreste trascurava la sua salute, offrendo anche le sofferenze fisiche come espiazione per il prossimo più bisognoso. I suoi acciacchi, i dolori di ogni genere li nascondeva e soltanto chi gli stava molto vicino poteva comprendere. A volte mi faceva arrabbiare proprio per questo e, come si fa con un figlio, ci si alleava per convincerlo a curarsi. Ma la sua santa caparbietà era dovuta alla mancanza di tempo perché “il don” non poteva mai “perdere la coincidenza con Dio ” e quindi il suo correre per recuperare, consolare, salvare l’uomo, chiunque esso fosse, era priorità assoluta.
E quindi, ritornando a quell’ultima sera dove don Oreste mangiò di gran gusto e poi lo accompagnai nella sua poverissima casina dove mi diede la sua ultima benedizione rassicurandomi che il giorno dopo avrebbe accettato il ricovero per accertamenti: “A domani”, mi disse con il suo sorriso pieno di luce vera… Ed io ci avevo creduto e gli risposi: “Domattina allora torno per portarti in ospedale e vedi di non scappare”… Anche quell’ultima volta riuscì a fregarmi. La coincidenza con Dio era arrivata e il prete di strada non poteva di certo farlo attendere.