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Domenica delle Palme: quale Parola si compie in me?

Con la domenica delle palme e della passione del Signore iniziamo la Settimana Santa, chiamata pure la Grande Settimana. Dopo i quaranta giorni di preparazione, ci apprestiamo a celebrare il mistero della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù (Triduo Pasquale). Un mistero tremendo e ineffabile, tenebroso e luminoso, davanti al quale rimaniamo stupiti, storditi ed increduli: “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?” (Isaia 53,1). La Chiesa e i suoi figli vivono questa settimana come un ritiro spirituale, in comunione intima con il loro Signore. Il modo come viviamo questi giorni è uno dei segni della profondità o meno della nostra fede.

Oggi Gesù entra nella sua città, Gerusalemme, la “città di Davide”, ricevuta in eredità, nella sua qualità di “Figlio di Davide”. Gesù amava Gerusalemme, tanto che pianse su di essa perché non era stata capace di riconoscere l’ora della sua visita. Il Signore entra nella sua città non per prenderne possesso, ma per dare la vita per il suo popolo. Entra cavalcando un puledro preso in prestito, acclamato festosamente dai suoi discepoli e simpatizzanti. A loro ci aggiungiamo noi: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!”.

Domenica delle palme e la legge del somaro

Questa domenica ha due facce, due parti ben distinte. La prima: il rito delle palme, seguito dalla processione, caratterizzata dalla gioia e l’entusiasmo, segno profetico del trionfo della vita. La seconda: l’Eucaristia, con la proclamazione della passione, contrassegnata dalla mestizia, dal fallimento e dalla morte. Dal vangelo della benedizione delle palme (Marco 11,1-10) vorrei richiamare l’attenzione su due dei protagonisti: la folla e il puledro. Innanzitutto, la folla che accompagna Gesù nel suo ingresso in Gerusalemme, acclamandolo come Messia. Generalmente identifichiamo questa folla, presumibilmente costituita soprattutto da galilei, con la folla che giorni dopo chiederà la crocifissione di Gesù.

Sembra piuttosto improbabile e alquanto ingiusta questa identificazione. Gerusalemme era una città con parecchie decine di migliaia di abitanti e, a Pasqua, raddoppiava la sua popolazione con l’arrivo dei pellegrini. Questa folla di galilei, per di più ritenuti degli esaltati, era naturale che finisse per disperdersi, forse anche delusa nelle attese messianiche su Gesù. La folla che chiederà la morte di Gesù, invece, era sobillata dalle autorità religiose della città e sicuramente formata da cittadini giudei. Il rischio per il discepolo di Gesù non è quello di essere una banderuola o un voltafaccia, ma di lasciarsi sopraffare dalla massa, di lasciarsi condizionare dal “così fan tutti” e dal “politicamente corretto”. Peggio ancora, di peccare di codardia nel dichiararsi un seguace di Gesù. In ogni caso, una fede alimentata da un entusiasmo facile e ambiguo si rivela sempre effimera e fondata sulla sabbia del sentimento!

La messianicità di Gesù richiede un cambio profondo di mentalità. Per questo Gesù va a riprendere una profezia dimenticata, che presenta un messia umile e mansueto che al cavallo preferisce l’asino, animale da soma (porta il peso degli altri): “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma” (Zaccaria 9,9). Gesù è il Messia che porta sulla croce i nostri pesi: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Isaia 53,4). Per conseguenza, anche il cristiano deve fare lo stesso: “Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo” (Galati 6,2). “Perché tutta la legge di Cristo è la legge del somaro” (Silvano Fausti).

“Quando il cristianesimo, la Chiesa, ciascuno di noi, sapendo che l’unica modalità d’esistenza è il vivere come l’asino, comincerà ad ammiccare al ‘mondo’, ai re e ai potenti della terra, desiderando vivere ed essere come loro attraverso il potere, la ricchezza e il successo, allora si realizzerà una sorta di tragica ibridazione. Noi fatti per vivere come asini ci uniremo al cavallo, simbolo da sempre del potere mondano, e il risultato sarà ritrovarsi come muli, animali stupidi ma soprattutto sterili.” (Paolo Scquizzato).

La sacralità del racconto della passione

La liturgia ci fa compiere un salto dalle palme alla passione, con la proclamazione del racconto della passione del Signore secondo il vangelo di Marco, che leggiamo quest’anno. Venerdì Santo ascolteremo ancora questo racconto secondo Giovanni. È proclamato due volte, nel tentativo di far penetrare questa Parola nel cuore del credente.

Il racconto della passione è la parte più antica, più sviluppata e più sacra dei vangeli. Si ritiene che la stesura essenziale, ripresa nel vangelo di Marco, sia avvenuta pochi anni dopo la morte di Gesù nell’anno 30, possibilmente prima dell’anno 36 quando Caifa terminò come sommo sacerdote, dato che nel racconto di Marco non viene menzionato il suo nome, e ciò fa supporre che Caifa fosse ancora in carica. Questo racconto circolava nelle comunità e presumibilmente era letto nella celebrazione eucaristica.

Gli apostoli erano i “testimoni della risurrezione”. Come mai, dunque, i cristiani della prima generazione hanno dato tanta importanza alla memoria della passione? Perché hanno visto che il pericolo di ignorare la croce di Cristo era molto forte e questo sarebbe stato un tradimento del messaggio cristiano. Tale rischio è tuttora una grande tentazione per non pochi cristiani. Il “kerigma”, cioè l’annuncio, è un trittico che unisce indissolubilmente la passione, la morte e la risurrezione del Signore.

La Passione secondo San Marco

Ogni evangelista ha una sua prospettiva teologica e catechetica, secondo la propria sensibilità personale e i bisogni delle comunità. Vediamo alcuni elementi caratteristici del racconto di Marco, raccolti attorno ad alcune parole chiave, come stimolo per la riflessione personale.

1) L’angoscia e la solidarietà. La prima nota sconcertante del racconto è il riferimento alla paura e all’angoscia di Gesù davanti alla morte imminente: “Cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: La mia anima è triste fino alla morte”. Non si tratta di un supereroe che va impavido verso la morte. È un uomo come noi che ama la vita e teme la morte. Quando la paura, l’angoscia e la tristezza minacciano di sopraffarci, pensiamo a lui che abita tuttora in queste realtà, in estrema solidarietà con noi!

2) La solitudine. Gesù appare abbandonato da tutti, addirittura dai suoi più stretti amici, incapaci di vegliare con lui e di consolarlo. Si sentirà abbandonato persino dal Padre sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. La solitudine fa parte dell’esperienza del cristiano. È il momento della prova e della purificazione della fede!

3) Abba! In quest’ora della prova Gesù prega con estrema fiducia: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. Pensiamo comunemente che il modo abituale di Gesù per rivolgersi al Padre sia quello di “Abbà”, il nome affettuoso del bambino per chiamare il padre: papà, babbo, papino. In realtà, questa è la sola volta in tutti i vangeli che troviamo questa parola e, guarda caso, nel momento più tragico della sua vita. Interroghiamoci se, nei momenti di angoscia e di bisogno, ci rivolgiamo a Dio come ad un papà o al “Dio onnipotente”.

4) La sindone. Marco presenta un dettaglio pittoresco che ha, da sempre, sfidato gli interpreti ed incuriosito i lettori. Al momento dell’arresto di Gesù “tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo”. Chi è questo ragazzo? Si pensa che sia un aneddoto autobiografico che Marco ha voluto inserire nel suo vangelo. Sarebbe lui stesso. Altri pensano che abbia, invece, una portata simbolica. Questo giovanotto rappresenterebbe il catecumeno chiamato a seguire Gesù fino alla croce, ma che, all’ora della verità, ha paura e scappa nudo, lasciando dietro la veste del suo battesimo, il lenzuolo (“sindone”, in greco). Alcuni, ancora, ci vedono un simbolismo positivo, perché gli stessi vocaboli “giovanotto” e “sindone” li troviamo presso il sepolcro, al mattino di Pasqua: Le donne “entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura” (16,5). In questo caso rappresenterebbe la vita stessa di Gesù che gli avversari credono di afferrare, ma si troveranno in mano solo il lenzuolo che l’aveva avvolto nel sepolcro! A ciascuno di noi il lasciarsi interrogare dalla comparsa di questo giovane!

5) Il silenzio. Ci stupisce il silenzio di Gesù, sottolineato diverse volte: “Ma egli taceva e non rispondeva” (a Caifa); “Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito”. Questo silenzio ci interroga. Gesù non risponde perché è cosciente che è inutile parlare, che questo giudizio è una farsa e che i suoi oppositori cercano solo di intrappolarlo, non cercano la verità. Gesù, dunque, rinuncia a difendersi, consapevole che, alla fine, la verità verrà a galla e il bene trionferà. Noi, purtroppo, tendiamo a reagire ad ogni costo, anche in modo isterico, incapaci di subire l’umiliazione.

6) La professione di fede. “Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Che strano! Gesù non viene riconosciuto come Figlio di Dio nell’operare i miracoli, ma per il suo modo di subire e di morire in croce! È un pagano la prima persona nel vangelo di Marco che fa la professione di fede in Gesù come Figlio di Dio, verso la quale Marco voleva condurre i suoi lettori. All’inizio del vangelo, Marco aveva scritto: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (1,1). Era il titolo, l’indicazione del percorso e il fine del suo vangelo: portare il lettore a riconoscere che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio!

7) Il coraggio. “Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù”. Marco sottolinea che questa mossa è stata un atto di coraggio, il coraggio di manifestarsi come un amico di Gesù, un condannato dal potere e un maledetto dalla Legge. Questo coraggio non l’hanno avuto i suoi discepoli. L’avremo noi?

Ricordi personali…

La domenica delle palme evoca in me dei ricordi nostalgici dell’infanzia. Ragazzi e giovani, il sabato andavamo sul monte per cercare un bel ramo di alloro, il più lungo possibile, che poi ornavamo di fiori. La domenica, la chiesa sembrava una foresta ondeggiante, con piante alte anche diversi metri che profumavano tutta la navata. Oggi i ramoscelli sono spesso così minuscoli e stilizzati, da essere ridotti a un simbolo ‘insignificante’, come tanti altri elementi della nostra liturgia, purtroppo.

Un altro ricordo risale alla Pasqua del 2002, trascorsa a Gerusalemme. La domenica delle palme tutta la comunità cristiana scendeva dal monte degli olivi brandendo rami di olivo e cantando con gioia ed entusiasmo. Ricordo che qualche ragazzino palestinese ci tirava dei sassi. Un ricordo che mi fa pensare a tanti cristiani che non possono professare liberamente la loro fede in questa Pasqua. Sono 365 milioni (un cristiano su 7 nel mondo, uno su 5 in Africa e 2 su 5 in Asia).

Il mio pensiero va pure alle tante pasque vissute in Africa, caratterizzate dalla giovinezza e dall’entusiasmo, segno di una nuova chiesa che avanza e porta nuova vitalità alla vecchia cristianità. E ne abbiamo veramente bisogno! Proposta per interiorizzare il racconto della passione Un modo di affrontare il lungo racconto potrebbe essere di fissare l’attenzione su ogni personaggio che interviene in questo dramma (sono tantissimi, tra gruppi e singole persone) e domandarci in quale/i ci vediamo rispecchiati. Ognuno di noi ha la sua parte in questo dramma. Ogni persona che interviene interpreta un ruolo in cui si compie la Scrittura. Quale parola si compie in me?

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