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Domenica delle palme: la porta d’ingresso alla Settimana Santa

La Domenica delle Palme è come il portale d’ingresso nella Grande Settimana, la più importante dell’anno, quella davvero decisiva, quando tutto si compie: la vita e la morte, il dono e la vergogna, la dedizione fedele e il rinnegamento…

L’Eucaristia è preceduta da un gesto, molto amato da adulti e bambini: rami di ulivo e di palma, preparati con cura nei giorni precedenti, vengono benedetti prima di entrare in chiesa. È un gesto solenne e atteso, che fa memoria dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: Lui stesso – che tante volte aveva smorzato l’entusiasmo facile dei discepoli e della gente- ora chiede di non tacere; perché “se questi taceranno, grideranno le pietre”. I discepoli lo fanno salire su un puledro e la folla stende sulla strada i propri mantelli e rami tagliati dagli alberi, gridando: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!” (cfr. Lc 19,28-40).

C’è un’intuizione vera nell’entusiasmo della gente quella mattina a Gerusalemme (e anche nel nostro ritornare un po’ bambini, la Domenica delle Palme): era povera gente, come tutti noi, gente da troppo tempo in attesa di una Speranza; e quell’Uomo, finalmente, sembrava essere davvero l’Atteso di Israele, e di tutti…

Ma l’entusiasmo, per loro come per noi, non è sufficiente, e in fondo lo sappiamo: il nostro amore “è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce” (Os 6,4). E tutto subito si rovescia nel contrario:” Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba! Crocifiggilo! Crocifiggilo!” (Lc 23,18.21). Quanta tristezza, ma anche quanta verità in queste parole! Perché si può amare e tradire, come insegna anche Pietro.

Bisogna allora che l’entusiasmo diventi sequela. La Domenica delle Palme è soltanto il portale d’ingresso nella Grande Settimana e durante l’Eucaristia siamo invitati a non fare più chiasso e ad ascoltare in silenzio il lungo racconto della Passione di Gesù, quest’anno proposto nella versione di Luca. L’invito implicito che l’evangelista fa al lettore è quello di seguire Gesù lungo la via della Croce (e chi è stato a Gerusalemme sa che la via crucis lungo le stradine della Via dolorosa è uno dei momenti culminanti del pellegrinaggio), perché solo seguendolo fino a Gerusalemme si può scoprire l’identità vera di Gesù, il Volto viene finalmente svelato e la regalità di quell’Uomo appare definitivamente diversa da ogni potenza mondana…

Permettetemi una confidenza: quando ero Parroco, mi piaceva dire ai ragazzi del catechismo che i vangeli sono come una caccia al tesoro, per trovare Gesù; per trovarlo davvero, occorre però salire e salire fino a Gerusalemme, senza fermarsi “al primo ristorante”, come canterebbe Brunori Sas…

Non solo. Una volta arrivati, il viaggio non è ancora finito: occorre uscire fuori dalla Città, perché il Calvario era situato fuori dalle mura, e i delinquenti non potevano essere crocifissi in Città. E il Dio nato nel legno della mangiatoia, perché in albergo non c’era posto, non poteva che morire in periferia, sul legno della Croce…

Ma non basta nemmeno seguire, occorre anche ascoltare, si potrebbe leggere la narrazione lucana della Passione seguendo il filo d’oro delle parole di Gesù. Ma in un breve articolo non è evidentemente possibile, e allora mi limito a un brevissimo commento delle tre parole dette sulla Croce, e commentate nei secoli dai più grandi musicisti, da Schutz e Haydn fino a Fabrizio De Andrè.

Eccole: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”; “in verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (al buon ladrone); “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. In queste parole, Gesù consegna il segreto della vita: vivere e morire amando, e affidandosi. Commenta la lettera agli Ebrei: “nei giorni della sua vita terrena, egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito” (5,7). Lo dico con semplicità: mi piacerebbe vivere e morire così, amando e perdonando; nel pieno abbandono, dicendo: “eccomi”. E penso che anche per questo la guerra sia davvero il grande male: perché impedisce a tutti -agli uni e agli altri!- di vivere e morire così. Si vive e si muore male, in tempo di guerra. E il rischio è, per tutti, di perdere l’anima, e dimenticare la morte di quell’Uomo, che chiama tutti all’intimità dell’Amore.

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