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Nel “Discorso della montagna” la strategia per costruire la pace

La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso, osserva papa Francesco ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia. Il quadro odierno non sembra, dunque, per nulla rassicurante. E non bisogna dimenticare che, nel caso sopra configurato di una guerra di legittima difesa, guerra «giusta» perché avverrebbe nel contesto di un disarmo nucleare generale e userebbe un tipo di armi «convenzionali», essa rimane comunque una soluzione estrema e che, purtroppo, come ogni guerra, produce distruzioni e morti. Cose tutte che fanno capire come non bisogna cessare dal ricercare vie più degne dell’uomo per la prevenzione e la composizione di eventuali conflitti, per la realizzazione della pace. Le attuali politiche e strategie di guerra, la possibilità non platonica dell’olocausto nucleare mondiale, la stessa necessità di difendere efficacemente i popoli, i cittadini e i loro beni con mezzi che non comportino la minaccia dell’annientamento, stanno accreditando sempre più l’azione non violenta come vera alternativa realistica alla violenza e alla guerra.

Tale azione non violenta, al pari della guerra, delle tirannie e delle ingiustizie, può avere diverse forme, in rapporto ai problemi in una data situazione. Si possono elencare, ad esempio, la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, il boicottaggio sociale, lo sciopero anche generale, il picchettaggio, il digiuno, l’obiezione fiscale, la non collaborazione (resistenza non violenta), la difesa popolare organizzata o difesa civile non violenta, istituita da un Governo come parte del suo piano di difesa, il «Governo parallelo», le sanzioni internazionali (come nel caso della guerra tra Russia e Ucraina). Tenendo conto, però, dell’ampiezza dei cambiamenti culturali e politici che quest’ultima scelta comporta, una tale via, nonostante sia fortemente auspicabile e vada perseguita con tutte le forze, oggi appare una prospettiva non realizzabile, né a corto né a medio termine. Se non cambiano le cose anche a livello internazionale, sembra che la via della difesa civile non violenta sia destinata a coesistere per molto tempo ancora con le forme di difesa militare. Specie dopo la Pacem in terris di Giovanni XXIII e la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, per la Chiesa è comunque certo che rispetto alle armi nucleari «come tali», che si distinguono dalle altre per la capacità di produrre effetti indiscriminati – meccanici, termici o radioattivi –, fatali per l’uomo e per l’ambiente, nel breve e nel lungo periodo, non vi può essere nessuna tolleranza.

Va ribadita, senza mezze misure, la loro condanna morale, perché ogni azione bellica indiscriminata «è delitto contro Dio e contro la stessa umanità». Proprio per questo, sulle orme di Giovanni XXIII, più volte Giovanni Paolo II ha ribadito che la «guerra è in sé irrazionale e il principio etico del regolamento pacifico dei conflitti è la sola via degna dell’uomo».  Non va, poi, dimenticata l’attenzione di Giovanni Paolo II di reperire e ricercare le ragioni della pace comuni ad ogni religione, il cosiddetto spirito di Assisi. Per il pontefice è irrazionale ed inconcepibile ogni giustificazione religiosa della violenza. Precisa e chiara ne è la condanna: «Ogni uso della religione per giustificare la violenza è un suo abuso. La religione non è, e non deve diventare, un pretesto per i conflitti, soprattutto quando l’identità religiosa, culturale ed etnica coincidono. La religione e la pace vanno di pari passo: dichiarare guerra in nome della religione è un’evidente contraddizione». Nei primi anni novanta del secolo scorso, a seguito del crollo politico del blocco comunista dei Paesi dell’Est europeo, Giovanni Paolo II con coraggio e con una netta presa di posizione sorpassa il diritto alla non-ingerenza negli affari interni di uno Stato con il prevalente dovere dell’ingerenza umanitaria, con queste argomentazioni: «Esistono degli interessi che trascendono gli Stati: sono gli interessi della persona umana, i suoi diritti.

Oggi come ieri, l’uomo e le sue necessità sono, ahimè, tuttora minacciati, a dispetto dei testi più o meno vincolanti del diritto internazionale, a tal punto che un nuovo concetto si è imposto in questi mesi, quello di “ingerenza umanitaria”… Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali siano stati messi in atto, e che, nonostante questo, delle intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli Stati non hanno più il diritto all’indifferenza. Sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore, se tutti gli altri mezzi si sono rivelati inefficaci». Più recente è l’ulteriore evoluzione magisteriale del principio dell’ingerenza umanitaria nel principio della responsabilità di proteggere ad opera di Benedetto XVI nel discorso tenuto all’Assemblea delle Nazioni Unite, il 18 aprile 2008: «Il riconoscimento dell’unità della famiglia umana e l’attenzione per l’innata dignità di ogni uomo e donna trovano oggi – così si è espresso il pontefice – una rinnovata accentuazione nel principio della responsabilità di proteggere. Solo di recente questo principio è stato definito, ma era già implicitamente presente alle origini della Nazioni Unite ed è ora divenuto sempre più caratteristica dell’attività dell’Organizzazione.

Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali. L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’impostazione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale. Ciò di cui vi è bisogno è una ricerca più profonda di modi di prevenire e controllare i conflitti, esplorando ogni possibile via diplomatica e prestando attenzione ed incoraggiamento anche ai più flebili segni di dialogo o di desiderio di riconciliazione».  La guerra non è mai inevitabile. La pace è sempre possibile. Anzi doverosa.

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