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Il senso profondo di un decennale

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Foto di Guy da Pixabay

Una Messa nel decennale della canonizzazione di Karol Wojtyla. L’Eucarestia sarà celebrata a San Pietro per celebrare i dieci anni della proclamazione del Papa santo. Figlio di una Chiesa non solo realmente mondiale, ma espressione di una felice sintesi tra universalità e inculturazione. Con il progressivo spostamento del suo baricentro verso l’America Latina, l’Africa, l’Asia. Ma dove, proprio per la sua azione a favore della gente più povera, più oppressa, la missione evangelizzatrice viene purtroppo segnata da un nuovo martirio. Come agli inizi del cristianesimo. E ancora. Espressione di una Chiesa impegnata a fondo nel movimento ecumenico. Con un grande sviluppo delle relazioni con le altre Chiese cristiane e con le altre religioni. Anche se, per l’islam, ci sono grossi ostacoli a causa dell’espandersi del fondamentalismo islamico. Testimone di una Chiesa che non teme le sfide della modernità. Ormai conosce bene il senso della vera laicità, dei confini tra ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare. E se rivendica la propria identità e una presenza nella vita civile, non per questo aspira a un ritorno alla societas christiana, a un nuovo integralismo religioso.

Foto di Gabriella Clare Marino su Unsplash

Karol Wojtyla sapeva leggere in anticipo la storia. E questa forza profetica gli veniva dalla sua fede, dal suo abbandonarsi nelle mani di Dio. Ma anche, gli veniva, dalla conoscenza diretta che aveva potuto fare del marxismo. E che gli aveva fatto capire che un “sistema” così –fondato sulla convinzione di costruire il paradiso in terra, ma negando la “verità” interiore che c’è in ogni uomo – era destinato, presto o tardi, a crollare. Giovanni Paolo II era stato ad Auschwitz. “Non potevo non venire qui come Papa”, aveva detto. “Vengo e mi inginocchio su questo Golgota del mondo contemporaneo“. Ma Karol Wojtyla voleva di più. Pensava a qualcosa che potesse restare nella memoria ma anche nel cuore dell’intero mondo ebraico. E nel riferirsi alle lapidi che commemorano le vittime del nazismo, papa Wojtyla fece una  aggiunta a sorpresa. Accennò anche alla lapide russa, per sottolineare le sofferenze di quella nazione nella lotta per la “libertà dei popoli“. Polacco sì, ma non di parte.

Fonte: Vatican news

Il palco con l’altare era stato eretto nel vicino campo di Birkenau, su quella piattaforma tristemente famosa. Si fermavano lì i treni con i vagoni piombati che avevano deportato ebrei da tutta Europa. Già quella visita, perciò, era stata un gesto di grande spessore, di grande significato. Il presidente americano Jimmy Carter, ricevendolo alla Casa Bianca nel 1979, si rivolse a Karol Wojtyla in termini schietti: “Lei ci ha costretti a riesaminare noi stessi. Ci ha ricordato il valore della vita umana e che la forza spirituale è la risorsa più vitale delle persone e delle nazioni”. E aggiunse: “L’aver cura degli altri ci rende più forti e ci dà coraggio, mentre la cieca corsa dietro fini egoistici – avere di più anziché essere di più – ci lascia vuoti, pessimisti, solitari, timorosi”. Il New York Times scrisse:”Quest’uomo ha un potere carismatico sconosciuto a tutti gli altri capi del mondo. È come se Cristo fosse tornato fra noi”. Era, secondo il missionario padre Piero Gheddo, il più bell’elogio che
si potesse fare del successore di Pietro. Quando Giovanni Paolo II parlava ai “favelados” di Rio de Janeiro, ai lebbrosi di Marituba in Amazzonia, agli indios di Oaxaca in Messico o ai pescatori di Baguio nelle Filippine. Quando condannava con forza ogni violazione dei diritti dell’uomo. Davanti a dittatori come Marcos (Filippine), Pinochet (Cile), Stroessner (Paraguay), Mobutu (Zaire).

Fonte: Vatican news

Quando Giovanni Paolo II parlava del valore della cultura africana (in Benin) e dello “sviluppo dal volto umano” (in Gabon). Egli incideva fortemente nelle coscienze dei popoli, non solo in quelli che lo ascoltavano e vedevano in quel momento. “I contenuti dei suoi discorsi e dei suoi gesti vanno visti ben al di là di quel che può dare una fuggevole immagine televisiva o il titolo a sensazione di un giornale – evidenziò padre Gheddo –. Quante volte un popolo sofferente e umiliato – penso alla Guinea Equatoriale spagnola, appena uscita dalla spaventosa dittatura di Macías Nguema o al Burundi emerso dalle sanguinose lotte tribali – che hanno ricevuto dalla visita del Papa il provvidenziale stimolo a riprendere con coraggio la via della riconciliazione e della ricostruzione”. Interessante, secondo il missionario del Pime, il fatto che il Papa, visitando le giovani Chiese in Asia e Africa, avesse il coraggio di porre dei gesti che rischiavano di venire mal interpretati, ma erano profetici rispetto a quella Chiesa. Ad esempio, la lunga visita in India (1-10 febbraio
1986) e l’insistenza sul dialogo interreligioso con indù e buddisti. Mettendo però ben in risalto che il dialogo (non religioso, ma per promuovere l’uomo e i suoi diritti) non sostituisce l’annunzio. In questo era stato criticato nel gregge e anche nella stampa cattolica.

Foto: UN Photos / Vinay Panjwani

Un vescovo indiano dell’Andhra Pradesh disse a padre Gheddo: “Il Papa non capisce la nostra situazione in India, dove i partiti indù e nazionalisti sono anzitutto anti-cristiani e spesso noi cristiani siamo perseguitati”. Ma il Papa, come il Buon Pastore, apriva il cammino e andava per la sua strada. Così, in preparazione al Giubileo del 2000, quando insisteva sulla “purificazione della memoria”, chiedendo perdono dei peccati che i popoli cristiani hanno commesso verso gli altri popoli, non tutti approvavano. “Nel continente asiatico, sostanzialmente ancora impenetrabile al cristianesimo, il Papa polacco ha dato della fede in Cristo un’immagine molto positiva in senso umano, di difesa dell’uomo, della giustizia e della pace – sostenne Gheddo –. In passato le missioni erano spesso accusate di essere collegate col colonialismo e di essere espressione della civiltà occidentale”. Giovanni Paolo II, che ha appassionatamente difeso le radici cristiane dell’Europa, ha anche rifiutato l’identificazione del cristianesimo con l’Europa e l’Occidente. Nelle due guerre in Iraq, ad esempio, che in Asia hanno avuto un’eco negativa enorme, il Papa ha parlato forte e chiaro contro quegli interventi militari ed è apparso a tutti che non ha “sposato” la causa dell’Occidente.

Foto di Tucker Tangeman su Unsplash

A 19 anni dalla sua morte e dieci dalla sua canonizzazione esiste il pericolo oggettivo che con il trascorrere del tempo – e soprattutto di un tempo come il nostro, con ritmi e cicli così veloci – si scolorino nella memoria della gente, e degli stessi credenti, le caratteristiche proprie della personalità e dell’opera anche di un grande pontefice. O, peggio, il pericolo che il ricordo collettivo si stemperi via via in qualcosa di puramente sentimentale,
nostalgico, emozionale. E finisca, questo ricordo, per essere affidato semplicemente alle centinaia, alle migliaia di asili, di strade, di piazze, di ospedali, di oratori, di tornei di calcio, che portano il nome di Karol Wojtyla. Tempo fa, il professor Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, faceva sua questa preoccupazione. “il nostro tempo smemorato – scriveva – rischia di dimenticare questa grande figura. È la realtà di un mondo, non solo sensibile e volubile, ma che alla fine ha timore dei grandi testimoni, di coloro che hanno nutrito e proposto una visione. C’è un revisionismo istintivo e diffuso che tende ad allontanare e rimpicciolire le grandi figure”.

Giacomo Galeazzi: