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Cristianesimo e mafia sono incompatibili

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All’ultimo Consiglio permanente, i vescovi italiani hanno lanciato l’allarme-cosche. La Cei richiama  l’attenzione delle istituzioni civili e dell’opinione pubblica sulla “malavita mafiosa, che prospera anche nel Nord del Paese“. Era il 9 maggio 1983 quando Giovanni Paolo II, in visita alla Valle dei Templi di Agrigento, gridò ai mafiosi: “Convertitevi“.  Quell’accorato monito scaturì dalla visita che il Papa, poche ore prima, fece ai genitori del Servo di Dio  Rosario Livatino. Il magistrato, profondamente credente, morì il 21 settembre 1990 in un agguato tesogli dalla Stidda agrigentina (l’organizzazione mafiosa concorrente di Cosa nostra). Con la propria utilitaria e senza scorta, stava recandosi in tribunale. Il 9 maggio 1993, Giovanni Paolo II, già diretto alla Valle dei Templi, decise di fermare il corteo papale davanti ad una piccola abitazione. Una sosta di appena sette minuti, in cui Karol Wojtyla rimase a colloquio privato in casa di Rosalia e Vittorio Livatino. Sette lunghissimi minuti in cui Rosalia rimase quasi paralizzata dall’emozione, mentre Vittorio parlò con il Pontefice e gli volle mostrare il diario del figlio. Giovanni Paolo II lo aprì a caso e lesse quella pagina, e mentre leggeva, stringeva fra le mani quelle di mamma Rosalia. Le parole del Papa furono profetiche: non maledisse i mafiosi, ma li invitò a un incontro con Cristo. La mafia ritenne che fosse un’offesa da vendicare. Così, nella basilica di San Giovanni in Laterano, mise trecento chili di tritolo pochi mesi dopo. Il 15 settembre fu ucciso padre Giuseppe Puglisi. Perché la vendetta è il linguaggio della mafia. Qualche mese prima dell’anatema di Karol Wojtyla erano stati uccisi i giudici Falcone e Borsellino. Un anno prima la Chiesa agrigentina aveva redatto un documento sull’emergenza mafia. Una diocesi-martire che contava almeno duecento morti ammazzati. Il grido di Giovanni Paolo II nella Valle

dei Templi rappresentò un punto di non ritorno della Chiesa nei
confronti della mafia. Urlò Giovanni Paolo II con l’indice alzato: “Dio ha detto una volta: ‘non uccidere‘. Non può l’uomo, qualsiasi
uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia. Non può cambiare
e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo,
mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio
di Dio!”. In un mondo impazzito, ingovernabile, e sempre più violento, Giovanni Paolo II rimase spesso solo. O, peggio, venne lasciato solo. A sostenere le richieste di pace e di giustizia di interi popoli. A difendere la sacralità della vita. A opporre un rifiuto totale all’uso delle armi. E lo fece non da “politico”, come alcuni critici si ostinano ancora oggi a dire. Ma da testimone del Vangelo. Per lui la proclamazione della verità di Dio non può in nessun modo essere disgiunta dal riconoscimento della dignità dell’uomo. Di ogni uomo. E dei suoi diritti fondamentali. E, solo a partire da qui, sarebbe stato possibile costruire un nuovo ordine mondiale. Era il Wojtyla profetico, il Wojtyla del “Non abbiate paura!”. E che esplodeva nella sua ira contro la crudeltà degli uomini. Come quella volta in Canada, quando accusò i Paesi ricchi di strangolare i Paesi poveri. O quella volta in Africa, in quello che è oggi il Burkina Faso. Quando si trovò dinanzi alle devastazioni provocate dalla siccità. E, con l’aiuto di alcuni vescovi africani, si mise a scrivere quel drammatico appello in favore del sud del mondo. O appunto quando in Sicilia, ad Agrigento. Nella Valle dei Templie se ne uscì con quella tremenda invettiva contro i mafiosi. La mattina, il vescovo del luogo gli aveva raccontato come la mafia avesse massacrato una famiglia. Per ultima la madre, in modo da farla soffrire di più. Era il Wojtyla che, con la sua stessa vita, testimoniò la radicalità evangelica. Così come seppe testimoniare la speranza cristiana. Quella speranza che non viene meno neppure di fronte alle situazioni più catastrofiche. Neppure di fronte al pessimismo di quanti non credono che il futuro possa essere diverso.

Giacomo Galeazzi: