A riprova del fatto che gli uomini non sono padroni del proprio destino, chi ieri sembrava sul punto di trionfare oggi rischia di finire nella polvere, e viceversa. Vladimir Putin era a un passo dal successo finale, che avrebbe coronato la sua politica espansiva avviata nel 2007 con il discorso di Monaco, oggi deve fare i conti con una realtà molto diversa. Non che abbia ragione Trump, e cioè che rischia la debacle anche sul Dnepr, ma ci vuole una buona dose di ottimismo per ritenere che per lui le cose stiano continuando ad andare bene. E gli Usa, fino a ieri fuori di tutto , oggi hanno qualche ragione non per gioire, ma per vedere meno nero.
È stato scritto che il Cremlino sta vivendo quello che gli americani hanno vissuto a Saigon e Kabul. Calma, non esageriamo. Nemmeno il paragone con l’Afghanistan del 1989, quando Gorbaciov decise il ritiro ed in meno di un anno venne giù tutto il mondo sovietico, è calzante: decisamente è troppo. Ma è anche troppo poco. È troppo perché Putin ha ancora molte carte in mano, a cominciare dall’Ucraina. È troppo poco perché il ritiro dalla Siria, terra dove gli Assad non avevano mai mancato di curarne gli interessi va ben al di là della perdita di una casella in un gioco a somma zero.
La Siria era diventata, dopo la crisi irachena, il debole asse portante dei traballanti equilibri mediorientali. La sua implosione rischia di essere il secondo e decisivo passo in quel profondo e tremendo sommovimento che ha iniziato a sovvertire l’ordine internazionale dal 2003. Alludiamo alla riapertura dei confini nel Medioriente. La dissoluzione dell’Iraq ha portato, nell’ordine, ad uno smacco per le forze occidentali che avevano partecipato alla guerra del 2003 (Italia compresa), al risveglio sciita, all’avvento di Daesh e alla formazione di una crisalide di stato kurdo. L’Iran, potenza leader degli sciiti ma invisa non solo ai sunniti quanto a tutti gli arabi, era tornato ad avere una sua zona d’influenza, grazie anche al precedente sorgere di Hezbollah in Libano. L’Arabia Saudita, ma anche il Qatar, hanno individuato nel vuoto creatosi spazi interessanti per riprendere un’iniziativa che mancava da molti decenni. Risultato: mai il Medioriente era stato così instabile. L’ultimo episodio di questa crisi strisciante è stato, in tempi molto recenti, la guerra tra Hamas e Israele e quella tra Israele e Libano.
Ora, grazie all’aiuto dato agli insorti siriani, è tornato nella regione un altro soggetto politico che era stato estromesso la bellezza di undici decenni fa, la Turchia. Erdogan ha ripreso e costantemente perseguito il progetto enunciato a suo tempo da Turgut Ozal, che alla vigilia della prima guerra del Golfo nel 1991 – si badi: anche quella contro l’Iraq – enunciò la disponibilità di Ankara a tornare ad assumersi le proprie responsabilità nel mondo arabo. Siamo arrivati a quel punto, e la riprova è esattamente nei primi veti posti dal governo turco nell’ambito dell’elaborazione dei nuovi assetti. Nessuno stato curdo nel nord della Siria, ha avvertito, e questo dice tutto: di quali siano le poste in gioco, di che cosa si rischi in futuro. Israele, guidato da un leader pronto letteralmente a tutto pur di assicurarsi la sopravvivenza, ha pensato bene di inviare subito le sue forze armate nel Golan ancora siriano. Sembra la mossa della vittoria, in previsione di una spartizione dell’odiato nemico, semmai è la manifestazione di una profonda preoccupazione. Un dittatore dedito alla più cinica Realpolitik resta sempre più prevedibile, quindi in qualche modo affidabile, di una leadership fomentata dal furore religioso.
È la prima volta dai tempi del Lawrence d’Arabia che una rivolta armata di arabi arriva trionfante a Damasco, con i fucili in mano. Gli inglesi, allora, fiutarono il pericolo e ben presto si rimangiarono la promessa di permettere la costituzione di un unico regno per la nazione araba. Attenzione, perché un gruppo di ex jihadisti che ostentano di aver abbandonato l’oltranzismo religioso possono trovare una buona surroga nel neo nazionalismo arabo. Gli Assad erano esponenti del partito Ba’th, che in Iraq annoverava tra i suoi giovani emergenti Saddam Hussein. Inoltre, ai tempi di Nasser, tentarono e per il volgere di un mattino riuscirono anche a creare un blocco unico con l’Egitto. Se i turchi sono tornati dopo cent’anni nel mondo arabo, cinquant’anni sono ben poca cosa per accantonare come superate certe velleità. Soprattutto se servono a smuovere le masse, soprattutto se servono a chiudere in una morsa un nemico comune: l’Israele di Benjamin Netanyahu.