Secondo Francesco i valori per diventare forza propulsiva dell’umanità hanno bisogno di essere testimoniati. Alla Chiesa universale il nuovo Direttorio per la catechesi offre l’opportunità di prendere di petto temi fondanti come la cultura digitale, la bioetica, l’accoglienza di disabili e migranti, la protezione dagli abusi, la teoria gender. Affinché siano testimoni credibili della fede, i catechisti dovranno “essere catechisti prima di fare i catechisti” e quindi dovranno operare con gratuità, dedizione, coerenza, secondo una spiritualità missionaria che li tenga lontani dallo “sterile affanno pastorale” e dall’individualismo. Oltre 300 pagine, suddivise in tre parti e 12 capitoli. Nel documento, redatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione della nuova evangelizzazione e approvato da Francesco, soffia forte lo spirito del Concilio. Vediamo come ci si è arrivati, dopo il “Direttorio catechistico generale” del 1971 e il “Direttorio generale per la catechesi” del 1997.
È un’impresa per nulla semplice, quella di riuscire a concentrare elementi specifici riguardanti il Concilio nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II e nella lunga attività di addetto ai lavori prima, e di pontefice poi, di papa Benedetto. Riguardo Joseph Ratzinger è ancora vivo il ricordo proprio dell’incontro con il clero di Roma che lui stesso, il papa teologo, definì una chiacchierata. Tutti i contenuti del Concilio sono presenti nel suo magistero; tuttavia, nel racconto emerso in quell’incontro, l’umile servo nella vigna del Signore ha voluto spiegare il suo pontificato alla luce del Concilio. La lezione
imparata al Vaticano II è indispensabile per poter servire la Chiesa ed è l’attrezzo da usare per poter camminare come popolo di Dio. Secondo papa Benedetto per attuare un rinnovamento e realizzare le aspettative e le attese del mondo, nessuna efficienza e nessun entusiasmo possono prescindere da un principio teologico e da uno empirico: la regola benedettina del Operi Dei nihil praeponatur, non si anteponga nulla all’opera di Dio, e la necessità di darsi un metodo, conoscere ciò che si vuole cambiare. Ci è stato permesso di apprendere da dove sia scaturita l’indizione dell’Anno della Fede: la convinzione secondo cui la Verità, sebbene contrastata dal virtuale, da ciò che domina, è destinata sempre ad affermarsi con tutta la sua forza spirituale ed è la vera riforma, il vero rinnovamento della Chiesa. Una riflessione che il missionario scalabriniano padre Gaetano Saracino ha articolato in un intervento scritto per il libro “Il Concilio di Papa Francesco”. Purtroppo il Concilio dei giornalisti, come Benedetto XVI ha chiamato la difficoltà che il Concilio ha avuto a concretizzarsi e a realizzarsi, per molto tempo ha dominato la scena su quel momento di grazia, con glosse e commenti marginali o fuorvianti. Giovanni Paolo II, in quasi ventotto anni di pontificato, invece, è stato colui che ha rilanciato i contenuti del Concilio fedele e riconoscente alla grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX. Se il Concilio aveva instradato tutta la Chiesa verso uno storico itinerario di rinnovamento pastorale, era logico domandarsi in che modo bisognava proseguire per dargli compimento. Anche nel papa venuto da lontano si affermano due necessità conciliari: la continua ed esplicita ricerca di una sintonia con il Concilio stesso e la costante attenzione al rischio di una riorganizzazione dell’ordine temporale a prescindere da Dio. Tutto il magistero e le scelte concrete operate nel suo pontificato rivolgono costantemente la sollecitudine della Chiesa a faccende materiali e sociali della vita umana, illuminati da quella esclamazione incoraggiante e piena di fede e speranza, all’inizio del suo pontificato: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura!
Cristo sa cosa è dentro l’uomo. Solo lui lo sa“.
In relazione al Concilio, Francesco si presenta come il pontefice dell’appello all’unità nella Chiesa e della Chiesa nel mondo all’insegna di una lettura più implicita ma del tutto inconfondibile e per nulla minimizzabile del Concilio. Se Giovanni Paolo II fu l’ultimo papa padre conciliare e Benedetto XVI l’ultimo papa membro del Concilio in qualità di perito, papa Francesco, ordinato sacerdote dopo la fine del Concilio, è il pontefice della memoria conciliare e avverte il compito di accompagnare la Chiesa su questo sentiero. Compito per nulla facile. La lezione conciliare in Francesco emerge innanzitutto nel modo in cui ne parla: con uno stile più episcopale che dottrinale. Nella sua predicazione il Concilio non è mai un oggetto di controversia teologica, come accadde nel pontificato di Benedetto XVI, ma è una delle condizioni di esistenza della Chiesa contemporanea, senza bisogno di sottili distinguo ermeneutici a beneficio di una platea di addetti ai lavori, dove ognuno rivendica la sua parte, tra cui tanti tradizionalisti. C’è una redistribuzione, per così dire, del mistero della Chiesa che è davvero a beneficio di tutti. L’opera della misericordia ha proprio questo scopo: riportare dentro tutti. Allo stesso tempo, dalla sua storia personale ha imparato che i personalismi, le decisioni brusche e gli autoritarismi stancano e non portano lontano. Se n’è accorto quando, diventando vescovo, iniziò a lavorare con i poveri di Buenos Aires. Per questo le sue attenzioni sono prima alle persone che non alle strutture preposte. Non categorie sociologiche, ma luoghi dove essere Chiesa e far vivere il messaggio evangelico. Se parla della donna è perché ha ascoltato realmente le donne di Plaza de Majo in Argentina; se parla di periferie è perché la Settimana Santa, anche da vescovo, la celebrava nei barrios; se parla di migranti è perché ha dovuto accogliere peruviani, boliviani e paraguayani giunti a Buenos Aires e finiti nel vortice della spaventosa crisi argentina del 2003. Questa è la chiesa nel mondo contemporaneo della Gaudium et Spes che papa Francesco promuove.
Esplicito è il richiamo in alcune espressioni di Jorge Mario Bergoglio come quella di vescovo e popolo che in lui ha molta pregnanza perché parla da vescovo che ha servito solo due diocesi: quella di Buenos Aires e quella di Roma. A papa Francesco non è appartenuta la
dinamica molto poco chiara e teologicamente poco ispirata del cambio frequente di diocesi, da parte di alcuni vescovi. Pertanto questa ricerca continua del contatto fisico e verbale con le persone è l’espressione di una fedeltà ad una sposa avuta in dono, ma rivela anche la convinzione di chi ha conosciuto l’efficacia di una Chiesa che si realizza tra popolo e vescovi ad Aperecida, dove i vescovi latinoamericani erano riuniti, mentre
il popolo pregava. Ora che siede sul Soglio di Pietro, Bergoglio, attraverso il Direttorio, indica tre principi basilari lungo i quali si può agire: la testimonianza, perché “la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione”; la misericordia, catechesi autentica che rende credibile l’annuncio della fede; e il dialogo, quello libero e gratuito, che non obbliga ma che, partendo dall’amore, contribuisce alla pace. In questo modo la catechesi aiuta i cristiani a dare un significato pieno alla propria esistenza.