Ormai non si parla d’altro: i costi impazziti dell’energia minacciano la stabilità dell’economia e della società occidentale persino più del Covid-19 e della guerra in Ucraina. La ragione è che colpiscono al cuore quella globalizzazione a cui erano state affidate imprudentemente tutte le speranze di progresso economico del mondo. Come già all’inizio dell’industrializzazione tra fine Settecento e primi dell’Ottocento i due padri fondatori dell’economia “moderna” avevano predicato, ci si era convinti che la liberalizzazione del commercio avrebbe diminuito i costi di produzione e reso più “efficiente” l’economia mondiale, permettendo grandi aumenti dei consumi. Ma la “globalizzazione” a cui si riferivano Smith e Ricardo si limitava alle economie “liberali” e anche lì occorse un paio di secoli perché si realizzasse su larga scala, non senza implicazioni negative importanti (diseguaglianze, crescita di monopoli, perdita di posti di lavoro, robotizzazione).
Ma quando questo è avvenuto negli ultimi 30 anni, si erano ormai fatte avanti economie non liberali che rispondono a logiche istituzionali diverse da quelle delle economie liberali e non rifuggono dall’usare l’economia come arma di guerra. Sono emersi dunque i forti limiti di strumenti esclusivamente legati all’efficienza economica per governare il mondo. Un mondo che ospita nazioni diversamente organizzate dal punto di vista religioso, culturale, politico e sociale richiede strumenti più complessi per essere mantenuto in pace. L’illusione di governarlo con i troppo semplici principi di un’economia capitalista globalizzata è miseramente fallita.
Mentre con grande fatica stiamo metabolizzando questa verità, che ci potrà portare sul medio-lungo periodo a modi più saggi di convivenza internazionale, dobbiamo però rispondere alle emergenze che ci attanagliano. Che fare per rispondere alla crisi energetica? Già per motivi ambientali si erano predisposti in Europa validi programmi di lungo periodo, il Green Deal, che però non sono in grado di produrre sollievo immediato. Si è poi ricorsi ad una diversificazione degli acquisti di petrolio e gas fuori dalla Russia, ma anche questo intervento non riesce a produrre risultati risolutivi immediati, pur offrendo un sollievo a più breve termine. Ultimamente, si sono presi in considerazione una moderazione della domanda, un contributo delle società che realizzano incredibili profitti dalle variazioni del prezzo di gas e petrolio volto a sostenere famiglie e imprese, aiuti alle imprese energivore, ma soprattutto, il cosiddetto price cap, ossia la fissazione di un tetto massimo al prezzo di gas e petrolio e il “decoupling” (sganciamento) tra prezzo del gas e prezzo dell’elettricità (Il prezzo dell’elettricità era stato agganciato a quello del gas indipendentemente dalle fonti utilizzate, perché il gas era la fonte meno cara, ma oggi c’è produzione di elettricità non legata al gas che costa molto di meno del gas).
Se le prime proposte sono state approvate nella riunione dei ministri preposti ai problemi energetici dei 27 paesi della UE il 9 settembre, le ultime due sono state rinviate alla Commissione per ulteriori approfondimenti, per la loro complessità tecnica e rilevanza politica. Infatti, 15 dei 27 paesi della UE sono incondizionatamente favorevoli, altri sono incerti, ma almeno 5 (paesi dell’Est Europa guidati dalla solita Ungheria) sono contrari. Quello che ci si può aspettare dagli approfondimenti della Commissione è che qualche tetto al prezzo di petrolio e gas verrà fissato, ma la riforma del mercato dell’energia non potrà essere realizzata subito, anche per le notevoli diversità di posizionamento strutturale dei 27 paesi. Attendiamo dunque le prossime decisioni.