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Congo, un vuoto di sovranità funzionale a certi interessi occidentali

La cronaca è semplice e spietata. Luca Attanasio, ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc) – classe 1977, tra i più giovani diplomatici del nostro paese – e Vittorio Iacovacci, carabiniere della sua scorta, sono stati uccisi ieri in un attacco non lontano dalla cittadina di Kanyamahoro, regione del Nord Kivu, mentre con una delegazione del World Food Programme si stavano recando in visita a un progetto scolastico umanitario. Il convoglio, da quel che si sa ad oggi, sarebbe stato attaccato da uomini armati che volevano rapirne il personale o rubarne le derrate alimentari.

L’imboscata è avvenuta nel parco nazionale del Virunga: oltre settemila chilometri quadrati da Goma (capoluogo del Nord Kibu) al territorio di Beni, da un quarto di secolo teatro di una sanguinosa guerra civile che ha fatto decine di migliaia di morti. Un’oasi di struggente bellezza naturale e cieca violenza etnico-tribale ricompresa in un paese, la Rdc, più di altri emblema dello schema neocoloniale cui ad oggi resta improntato il rapporto tra continente africano e “primo mondo”, che dell’Africa continua a sfruttare le immense ricchezze naturali. In questo caso soprattutto legname, oro, diamanti, cobalto, nichel e coltan. Di quest’ultimo, essenziale per la produzione degli smartphone, nel Kivu si estrae – in condizioni sovente disumane – oltre l’80% del totale mondiale. L’appetito dell’industria occidentale per i minerali congolesi (e non solo) è peraltro ulteriormente accentuato dalla “rivoluzione elettrica” dell’autotrasporto, che a tecnologie correnti richiede ingenti quantità di terre e metalli rari per la costruzione di batterie e circuiti integrati.

Tra il 1994 e il 2003 la Rdc è stata dilaniata da un conflitto che secondo alcune stime avrebbe causato fino a cinque milioni di morti. Scatenata dall’esodo nel Kivu di decine di migliaia di hutu dal confinante Ruanda dopo il genocidio che lì fece quasi un milione di morti, la guerra ha coinvolto truppe congolesi, ugandesi, ruandesi, keniane e libiche, direttamente o mediante decine di milizie che mira(va)no a controllare le risorse dell’aerea. Il conflitto ufficialmente è finito, le violenze no: i gruppi paramilitari operano indisturbati nell’Est del paese malgrado la presenza dei 17 mila militari di Monusco, la più grande missione di peace dell’Onu. Le stesse Nazioni Unite stimano in oltre cinque milioni gli sfollati nella Rdc, il grosso nelle aree nord-orientali al confine con Rwanda, Burundi, Uganda e con il martoriato Sud Sudan. La capitale Kinshasa dista circa 2.500 chilometri, che in un paese poverissimo – 84 milioni di abitanti e un pil (prodotto interno lordo) pro capite di 501 dollari annui, pari a poco più di un dollaro al giorno – e quasi privo di collegamenti interni impedisce di esercitare qualsiasi forma di controllo su quei territori. Un vuoto di sovranità funzionale agli interessi economico-industriali degli acquirenti ultimi delle ricchezze congolesi. Con risultati purtroppo tragici.

Fabrizio Maronta, Responsabile Relazioni internazionali di Limes – Rivista Italiana di Geopolitica

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