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Conferenza di Parigi: la ridefinizione degli equilibri dopo l'”inutile strage”

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Il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi la Conferenza di Parigi – ricordata soprattutto per il Trattato di Versailles del 28 giugno dello stesso anno – per definire i nuovi equilibri internazionali dopo la Prima guerra mondiale. Era stato il conflitto più sconvolgente della storia – fino a quel momento: la Seconda avrebbe rappresentato una tragedia ancora più grande – con più di sedici milioni di morti e più di venti milioni tra feriti e mutilati. Altrettanto drammatici furono gli sconvolgimenti geopolitici che ne scaturirono: la guerra segnò la fine di tre imperi, asburgico, ottomano e zarista. Non fu la fine del mondo, ma la fine di un mondo. Occorreva riorganizzare l’intero sistema delle relazioni internazionali.

La Conferenza si aprì tra grandi speranze. Sembrò che la terribile lezione della guerra – “un’inutile strage” la definì Benedetto XV – aprisse la strada alla vittoria dei popoli contro i grandi i poteri assoluti che l’avevano voluta, quei “sonnambuli” che avevano fatto precipitare il mondo in un immane conflitto senza rendersi conto di ciò che facevano e di quali conseguenze avrebbero provocato. A farlo sperare era anche il disegno in quattordici punti proposto da Woodrow Wilson, il presidente democratico degli Stati Uniti, il cui intervento era stato decisivo per far vincere le potenze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia, cui si era aggiunta l’Italia) contro Austria, Germania e i loro alleati. Cruciale, nel disegno di Wilson, era in particolare il principio di autodeterminazione dei popoli: ogni popolo avrebbe dovuto decidere liberalmente il suo destino e quindi la sua forma di Stato, il suo governo, i suoi confini ecc. Tutti gli Stati, inoltre, sarebbero dovuti entrare nella Società delle Nazioni, sede di composizione dei conflitti, che avrebbe reso inutile la guerra per risolvere le controversie internazionali.

Si tratta, in entrambi i casi, di cardini del sistema internazionale in linea di principio accettati ancora oggi. Da allora il modello – tipicamente europeo e occidentale – dello Stato nazionale cominciò a diffondersi sempre di più in tutto il mondo. La comunità internazionale cominciò inoltre ad aprirsi per la prima volta alla voce dei popoli non occidentali: iniziarono a prendere forma allora i movimenti del panafricanismo e del panasiatismo. Per questi aspetti, la Conferenza di Parigi può essere considerata un successo. Ma presto le speranze con cui si era aperta furono tradite. In primo luogo con il Trattato di Versailles, che inflisse condizioni pesantissime alla Germania e all’Austria, aprendo indirettamente la strada al nazismo e all’aggressione hitleriana all’Europa e al mondo intero iniziata nel 1939. E, poi, con la prevalenza della tendenza isolazionista, sostenuta dai repubblicani, per cui gli Stati Uniti non fecero parte della Società delle nazioni, indebolendola così fortemente.

A più di cento anni di distanza, inoltre, il modello dello Stato nazionale non appare più uniformemente vincente, come è stato per gran parte del XX secolo. Infine, lo stesso principio di autodeterminazione dei popoli appare più problematico di cento anni fa, perché nell’ultimo secolo ha rappresentato la bandiera impugnata in tantissimi conflitti. Wilson fece vincere a Parigi le idee di Mazzini, ma oggi l’urgenza della pace si fa sentire con più forza rispetto a quello di un rispetto assoluto – fino a produrre conflitti interminabili e senza sbocchi – dell’autodeterminazione dei popoli.

Agostino Giovagnoli: