Editoriale

O con Dio o con la mafia

Oggi il connubio mafia-affari è nazionale ed è un problema pastorale che non può essere confinato nelle regioni del sud. L’impegno civile a favore della legalità riguarda ogni cittadino. Far parte della mafia si configura come un peccato gravissimo, che di fatto pone al di fuori della comunione ecclesiale chi lo compie. Per questo motivo noi vescovi abbiamo rimarcato l’incompatibilità tra la mafia e il Vangelo, consapevoli che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Chiesa, il suo impegno catechetico, la sua prassi pastorale, la sua azione sociale. Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle diocesi della Sicilia venga punito con la scomunica, mentre se commesso in un’altra regione possa restare indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica.

Nel discorso di papa Francesco a Sibari del 21 giugno 2014 c’è l’esplicita condanna del comportamento mafioso di chi commette atti criminali tipici della mafia, ma anche della stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: “Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”. Francesco non mette solo in evidenza il peccato grave in cui si trovano i mafiosi. Dice che questa condizione di peccato dei mafiosi è anche un delitto penale che comporta la scomunica perché c’è l’idolatria, l’adorazione del male, del denaro che “prende il posto dell’adorazione per il Signore”. La criminalità organizzata non è più un’emergenza solo del Mezzogiorno ma anche al Nord e al centro. I clan vanno dove ci sono i soldi e con la crisi è più conveniente per loro fare affari lontano dalle loro terre sempre più impoverite e intrecciare rapporti con potentati economici e politici in ogni regione. La Chiesa è sempre alla ricerca di nuove strade per combattere la mafia sensibilizzando la società civile e le istituzioni contro il crimine organizzato.

La mafia danneggia la Chiesa e la mentalità ecclesiale perché propone modelli opposti alla Chiesa. La conversione dei mafiosi non può essere ridotta a un fatto intimistico ma deve avere una dimensione pubblica, essere seguita da una riparazione del male fatto, da una richiesta di perdono alle vittime e dall’abbandono della criminalità organizzata. Chi non si converte è fuori dalla comunione ecclesiale, è appunto scomunicato. E la scomunica comminata è una pena medicinale, un monito in vista di un possibile ravvedimento e della conversione.

La legge penale universale deve contenere una configurazione del delitto canonico di mafia la più ampia possibile perché il fenomeno assume oggi contorni globali. Da qui la necessità di interrogarci perché la scomunica non valga in quei luoghi in cui vi sia la presenza di associazioni mafiose, i cui aderenti non risultano invece colpiti da scomunica in assenza di un decreto formale da parte dei singoli vescovi o delle conferenze regionali o nazionali.

Il modello è la scomunica già in vigore per i mafiosi nelle diocesi siciliane. L’obiettivo è estendere all’episcopato italiano e mondiale ciò che nelle diocesi siciliane è stato stabilito per chi si rende colpevole di peccato di omicidio collegato alla mafia. A tal fine, nell’anniversario del monito di San Giovanni Paolo II ai mafiosi, la Conferenza episcopale siciliana ha pubblicato un documento intitolato “Convertitevi” sull’incompatibilità tra l’appartenenza alla Chiesa e ai clan mafiosi. A sollevare la necessità di estendere al nord la scomunica ai mafiosi sono stati i vescovi meridionali: nel Mezzogiorno la sensibilità verso la minaccia mafiosa è maggiormente avvertita.

mons. Michele Pennisi

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