La pandemia e la crisi russo-ucraina interrogano più che mai la nostra coscienza individuale e collettiva. E’ necessario affrontare l’esame del rapporto tra i cattolici e la politica, un complesso rapporto che non può essere liquidato con una semplice battuta. Vanno evitate declinazioni o interpretazioni errate o, per lo meno, distorte dell’impegno dei cattolici in politica. E’ erroneo ritenere, infatti, che la politica odierna non abbia più bisogno dell’apporto dei cattolici nell’epoca dei moderni social media (che rappresentano il megafono di una politica “urlata” e sono poco inclini ad accogliere un pensiero politico argomentato, fatto di ragionamenti, di mediazione e di testimonianza). Ed anche, per come la politica è spesso gestita, al servizio degli interessi più organizzati. I cattolici, inoltre, non sono dei “minori”, ossia persone incapaci di stare in politica o, addirittura che non detengono una vocazione politica in grado di sollecitarli al servizio del bene comune.
E’ fuorviante pensare che i cattolici, se pure possono essere impegnati in politica, vi esistano in maniera necessariamente sottodimensionata oppure subordinata ad altri. Non è vero, poi, che c’è chi decide al posto dei cattolici. Quasi che nelle trattative su questioni cruciali i cattolici siano da considerare alla stregua degli “utili idioti”, dei quali sembra abbia parlato Palmiro Togliatti già nel dopoguerra. L’attuale situazione non chiude la porta alla necessità di un nuovo impegno dei cattolici in politica. Tutt’altro. Il contributo dei cattolici, proprio in questo frangente storico del dopo l’emergenza Covid-19, può essere fondamentale per il futuro del nostro Paese, ma è indispensabile che si pensi ad organizzarne una rappresentanza efficace e visibile, per far vigoreggiare la solida radice culturale che a loro appartiene. Ma c’è, però, da chiedersi: a quali condizioni? A conti fatti, una nuova stagione di presenza organizzata dei cattolici in politica resterebbe un semplice auspicio se non venissero superate quelle remore culturali e quei pregiudizi che tengono “prigionieri” i cattolici, costringendoli in uno stato di minorità o di irrilevanza politica.
Il sondaggista Nando Pagnoncelli ha documentato la frammentazione identitaria che in questi anni ha colpito i cattolici. Non si tratta propriamente della frammentazione politica, causata dalla cosiddetta “ideologia della diaspora” Si tratta, invece, del fatto che la propria fede religiosa non sembra più conformare, ossia non riesce ad unificare i vari comportamenti dei credenti. Sicché essi tendono a vivere una netta separazione tra fede e impegno sociale, tra fede e politica, tra ragione e politica. Per esempio, possono amare papa Francesco e volere che i porti siano chiusi ad un’umanità sofferente. In altri termini, non pochi cattolici riterrebbero di stare in politica non ultimamente per ragioni di fede. Perché ciò, secondo loro, sarebbe deleterio per il dialogo pubblico. Ma solo per ragioni umane. E così, il cuore dei credenti in politica graviterebbe inevitabilmente e solo verso i partiti e non certo verso la comunione con Cristo e il suo Vangelo. Il che indurrebbe o giustificherebbe scelte e comportamenti non coerenti con i valori in cui si crede e con la coscienza rettamente formata, bensì solo conformi agli ordini di scuderia dei partiti. Poco importa se le leggi da votare sono ad impronta laicista, imperniate attorno a visioni antropologiche fortemente riduttive o addirittura irrazionali. Basta che siano state messe all’ordine del giorno dal proprio partito.
È indubbio, diciamocelo pure, che questo modo di pensare di non pochi cattolici pone per la Chiesa, impegnata in un importante cammino sinodale, una questione teologica ed ecclesiologica, una “questione cattolica” non piccola. Infatti tale modo di pensare si nutre di questo errato presupposto secondo cui l’essere specifico del cristiano non giustificherebbe un impegno peculiare dei credenti nella politica. In politica si dovrebbe essere presenti senza ragioni religiose, in definitiva senza il riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa. Ma non finisce qui. A ben riflettere, quanto detto implicherebbe altri presupposti, davvero gravi per i politici cattolici: al lato pratico, non varrebbe l’incarnazione di Cristo che assume e redime l’umanità. Il credente che si impegna in politica non avrebbe, per conseguenza, il compito di vivere la politica, come suggerisce, peraltro, papa Francesco nell’enciclica “Fratelli tutti”, secondo carità, cioè secondo l’amore trasfigurante ed innovativo di Cristo. Parimenti, il credente non avrebbe il compito di vivere la politica scegliendo la fraternità come principio architettonico della democrazia e sarebbe chiamato a servire il bene comune come semplice cittadino.