Vladimir Putin rischia di restare impantanato nel Donbass: se le forze ucraine dovessero reggere (un grandissimo ‘se’, ma finora hanno saputo sorprenderci) lo smacco sarebbe evidente. Ma rischia anche di vincere: se avesse ragione Boris Johnson (anche qui il ‘se’ è grandissimo, trattandosi di un premier non molto all’altezza degli eventi) in realtà la possibilità di un successo russo è concreta. Rischiano, a questo punto, anche gli Usa e tutti i leader europei che hanno scommesso sulla vittoria di Kiev, e non sono pochi. Insomma, per dirla in breve, alla fine rischiamo tutti. È la guerra: un ottimo motivo per non farla mai.
Sembra che finora ci sia una sola potenza che, vada come vada, potrebbe vincere tutto il jackpot, e questa potenza è la Cina. La sua è la posizione che aveva tra le due guerre mondiali l’Unione Sovietica: se ne stava seduta sullo steccato e guardava gli altri che se le davano quando in Etiopia, quando sui Sudeti. Stalin, alla Conferenza di Monaco, riuscì a farsi assegnare senza nemmeno bisogno di uno sbadiglio la Rutenia Subcarpatica, portando il territorio soggetto a Mosca là dove nessuno Zar era riuscito ad arrivare. Xi Jinping rischia di trovarsi nella stessa situazione. È quella che in diplomazia si chiama “tertium gaudens”. Beato chi ci si trova.
In effetti la guerra in Ucraina, con la frattura che ha provocato tra Est e Ovest, sembra fatta apposta per sancire il ruolo di superpotenza mondiale che Pechino si è conquistato con quarant’anni esatti di crescita economica. Non muove un dito ma tutti guardano nella sua direzione. Prima o poi le armi taceranno e ci sarà, nell’ordine: 1) da mediare; 2) da ricostruire; 3) da divenire ancora più pesanti, magari alla guida del fronte dei paesi che una volta si sarebbero definiti Non Allineati.
Intanto, come primo effetto, il petrolio russo sta prendendo la via della Seta, ma non in direzione dell’Europa. Presto potrebbe essere seguito dal gas. Per un gigante come quello cinese, che ha sete di petrolio come mai ne ha avuta nella sua storia millenaria, è una fortuna inaspettata. Più energia, più sviluppo; più sviluppo, più crescita; più crescita, più peso politico. Ed un vicino russo che, dopo aver ostentato atteggiamenti di superiorità per secoli, adesso dipenderà per sopravvivere proprio dalle importazioni di Pechino. Difficile immaginare che il Cremlino possa in futuro dare le carte, almeno con la Repubblica Popolare.
Per capire: quando Mao Tse Dong prese il potere, partì immediatamente in treno per Mosca a cercare il riconoscimento dei compagni sovietici. Stalin non lo andò a prendere alla stazione, e lo fece attendere un mese in albergo prima di riceverlo. Oggi Xi arriverebbe in aereo, ignorando tutte le chiusure delle rotte russe, verrebbe accolto in pompa magna all’aeroporto e poi direttamente al Cremlino, nella sala di San Giorgio. E gli americani, di lontano, a guardare preoccupati. Il mondo si è rovesciato: per uscire dal Vietnam, Nixon dovette andare sulla Grande Muraglia per mettere paura ai russi, e così essere accolto a Mosca. Oggi Mosca cerca la porta della Città Proibita per mettere paura agli Stati Uniti e farli uscire dall’Ucraina. Negli anni ’70 la Cina ottenne il suo primo riconoscimento dalla Casa Bianca, oggi il riconoscimento sarebbe supremo. Allora ne scaturì l’ok di Washington al cambio di cavallo nel Consiglio di Sicurezza Onu (via Taiwan, dentro Pechino), adesso chissà cosa accadrà. Se vivessimo a Taipei non saremmo molto felici.
Ma in questo eterno gioco di equilibri precari e paci instabili che è la politica internazionale, si sa che niente si crea, niente si distrugge e tutto si trasforma. Ecco allora che quella che è la posizione privilegiata di oggi potrebbe trasformarsi domani non in un trono di spade, ma in uno di spine. Mosca e Pechino, non scordiamolo, alla fine degli anni ’60 furono protagoniste di una guerra non dichiarata, poco conosciuta ma molto violenta, lungo i confini della Mongolia interna: non bastano una serie di fruttuosi accordi di natura petrolifera per creare una stabile amicizia. Inoltre quello che oggi è una sorta di allineamento dei grandi giganti asiatici lungo posizioni vagamente antioccidentali (si pensi all’India) potrebbe tradursi molto presto in nuove forme di rivalità: appena a gennaio la crisi del Kazakhstan ha dimostrato che il Centrasia è in piena e sottile ebollizione.
Terzo punto: la reazione occidentale sta già prendendo forma: i rapporti tra il Giappone e la Nato sono tornati saldi come non lo erano dagli anni ’50, e Washington ha rilanciato la vecchia formula delle “Nato regionali” con Australia e Nuova Zelanda, a tutela del Mar Cinese Meridionale. Non è detto che il Vietnam sia scontento di questo: Ho Chi Min odiava i cinesi. Ma, soprattutto, dietro a questi immediati quanto chiari controbilanciamenti sussiste un problema: ma la Cina è davvero pronta ad essere una superpotenza in grado di confrontarsi con gli Usa – gigante economico e militare – e l’Unione Europea, che militarmente sarà pure quel che è, ma economicamente è il secondo mercato mondiale? Finora è sembrato di sì, ma era facile per Pechino: grandi guadagni, zero responsabilità. Domani potrebbe accadere il contrario: grandi responsabilità e zero guadagni economici.
Meglio sarebbe, in conclusione, che anche per Pechino le cose tornassero non com’erano il 20 febbraio, ma appena un po’ cambiate. Un motivo in più per bloccare questa guerra. Da oggi in poi, anche per Pechino, si entra nella terra incognita dei rimescolamenti imprevedibili. Sì, anche la Cina rischia. Anche la Cina ha qualche motivo per essere preoccupata.