La dimensione della Chiesa povera per i poveri in Francesco deriva dalla sua attività prima e dopo la sua consacrazione a vescovo, e poi nel pontificato. La sua prevalente attività è quella pastorale. Ciò gli ha conferito la preoccupazione di ritrovare nel Concilio Vaticano II i testi che si riferiscono in un modo o in un altro alla Chiesa povera per i poveri. La misericordia nel Concilio è espressa potentemente nella costituzione pastorale “Gaudium et Spes” (numeri 42 e 90). C’è l’auspicio che gli istituti promuovano la collaborazione tra le nazioni. Si può andare a vedere sant’Agostino. Quando propone e attua centri di aiuto per i poveri e invita i suoi sacerdoti ad evangelizzare tutte le etnie presenti nel territorio della sua diocesi. Un passaggio di consegne problematico. La Chiesa in Sud America e in Europa: è proprio vero che in Sud America il Concilio è stato messo in pratica più che in Europa? È molto discutibile. Ci sono aspetti di attuazione molto esteriori e altri più essenziali. Francesco deve riportare la fede tanto in Europa quanto in America Latina.Tutte e due ne hanno un bisogno urgente e radicale. Jorge Mario Bergoglio si interessa tanto dell’Europa quanto dell’Africa e dell’America, quella del Nord come quella del Sud. La sua esperienza argentina è utile a pastori e fedeli occidentali. Secondo il vescovo Giancarlo Vecerrica, il Concilio è stato, è e sarà il programma dei predecessori e dei successori Francesco che è conciliare quanto gli altri pontefici. Papa Bergoglio, tuttavia, è totalmente immerso dentro i contenuti e il metodo del Concilio, è un figlio del Concilio, come se vi avesse partecipato. Tante le sfide dottrinali affrontate insieme dai suoi predecessori Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger. La prima fu la teologia della liberazione che si stava diffondendo in America Latina. Sia in Europa che in America del Nord era opinione comune che si trattasse di un sostegno ai poveri. E dunque di una causa che si doveva approvare senz’altro. Ma per Wojtyla e Ratzinger questo era un errore. La povertà e i poveri erano senza dubbio posti a tema dalla teologia della liberazione e tuttavia in una prospettiva molto specifica. Le forme di aiuto immediato ai poveri e le riforme che ne miglioravano la condizione venivano condannate. Come riformismo che ha l’effetto di consolidare il sistema. Attutivano, si affermava, la rabbia e l’indignazione che invece erano necessarie per la trasformazione rivoluzionaria del sistema.E uno dei principali problemi del lavoro di Joseph Ratzinger, negli anni da prefetto della Dottrina della fede, fu lo sforzo per giungere a una corretta comprensione dell’ecumenismo. Continuità nella differenza, quindi. Il sociologo e saggista Gianfranco Morra inserisce in questa linea di attuazione wojtyliana-ratzingeriana del Concilio il contributo personale di Francesco. Secondo Morra, Bergoglio non intende solo, come è largamente richiesto, ripulire la Curia, ma anche inventare una nuova pastorale, che si lascia alle spalle l’infondata accusa di proselitismo e accetta gli uomini per quel che sono, non li giudica, ma li consola e conforta. La schiettezza del papa è totale. Egli propone di ripartire dal Concilio e aprire alla cultura moderna. È una delle vie possibili. In ciò consiste a giudizio di Morra la differenza tra Bergoglio da un lato e la coppia Wojtyla-Ratzinger dall’altra. La Chiesa si è sempre aperta a tutte le epoche storiche. Tuttavia non l’ha fatto con il sentimentalismo e il buonismo. Ma con una dialettica di apertura e chiusura. Ossia distinguendo in ogni epoca che cosa era compatibile con la sua tradizione e che cosa, invece, non lo era. Ma ancora una volta il punto di contatto tra personalità così ricche nella loro diversità va ricercata in quella straordinaria scuola di pontificato che è stata per i suoi successori la missione pastorale di Giovanni XXIII. Quando fu eletto papa il cardinale Giuseppe Roncalli, patriarca di Venezia, alcuni, per la sua età avanzata, sentenziarono che il suo sarebbe stato un pontificato di transizione. Al riguardo è illuminante la testimonianza di monsignor Vincenzo Carbone. Non si conosce il pensiero degli elettori. Però si può dire che diverso era il disegno di Dio. All’inizio del nuovo pontificato molti cercavano di scorgerne la nota caratteristica. Ma la svelò il papa stesso. Tre mesi dopo l’elezione, Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 si rivolse ai cardinali. Riuniti nella sala capitolare del monastero benedettino di San Paolo. E annunziò la sua decisione di celebrare un concilio ecumenico. La risoluzione era scaturita dalla constatazione della crisi. Causata nella società moderna dal decadimento dei valori spirituali e morali. Negli ultimi cinquant’anni, erano avvenute profonde trasformazioni sociali e politiche. Erano maturati nuovi e gravi problemi, che esigevano una risposta cristiana. Prima Pio XI e poi Pio XII avevano pensato ad un concilio ecumenico ed avevano pure avviato gli studi preparatori. Ma entrambi i tentativi, per varie ragioni, si erano arrestati. Alcuni anni dopo, Giovanni XXIII, con lo sguardo rivolto ai bisogni della Chiesa e del mondo, si accinse, con “umile risolutezza di proposito”, alla grande impresa. Quella che egli riteneva volere divino.