Diceva Cicerone che “è tipico dello sciocco guardare i difetti altrui e dimenticarsi dei propri”. Fanno la pessima figura del fratello maggiore della parabola evangelica del figliol prodigo quei credenti tutti di un pezzo che vorrebbero entrare nel foro interiore di chi, pur riconoscendosi peccatore ed errante, cerca possibilità di redenzione. Duemila anni di cristianesimo dimostrano che le serpi non mancano neppure in seno alla comunità dei “giusti”. Intanto, chiusa la parentesi della propaganda partitica, la realtà stenta a recuperare spazio nei nostri ragionamenti, equilibrandoli. Come sempre, chi vince esulta per il risultato positivo e chi perde rincorre alibi. La questione cruciale rimane, però, la disponibilità ad affrontare le proprie contraddizioni. Troppo facile vedere la pagliuzza nell’occhio altrui, ignorando la trave che ostruisce la propria visuale. Il Movimento Cinque Stelle paga l’aver snaturato la propria proposta facendone mera protesta, pur occupando i principali incarichi di governo. A sinistra si certifica l’esistenza in vita di un’opposizione per un anno bloccata da faide interne. Il centrodestra numericamente torna centrale eppure mai come adesso l’impronta leghista stravolge il consueto scenario politico. Se questa è la foto odierna si pongono alcune questioni. E’ giusto negare interlocuzione ad un partito che rappresenta più di un elettore su tre? L’Europa che ha bisogno di coalizzare popolari e socialisti per resistere all’ondata anti-sistema, quale forza, unità e credibilità può avere su scala mondiale?
Per la prima volta alle Europee si è vista una mobilitazione del laicato cattolico. Senza dubbio è un buon segno, a patto però di non pretendere di distribuire patenti di cattolicità. Legittime sono le perplessità di chi ritiene strumentale ricordarsi della fede soltanto in campagna elettorale. Un’attitudine trasversalmente diffusa nell’arco costituzionale e che si è, come da tradizione, esplicitata nel rituale “giro delle sette chiese” per ingraziarsi, comunità di base, movimenti laicali, parrocchie, gerarchie ecclesiastiche. Ogni forza politica ha perseguito il medesimo obiettivo secondo le proprie specifiche modalità: qualcuno in maniera esplicita e plateale, altri attraverso conciliaboli dietro le quinte, altri ancora mediante entrature personali nella Chiesa ufficiale. Ecco allora che tornano attualissime le raccomandazioni di San Giovanni XXIII quando esortava a “guardarsi negli occhi senza sfidarsi, ad avvicinarsi gli uni gli altri senza incutersi paura, ad aiutarsi scambievolmente senza compromessi e a confrontarsi, tenendo presente la differenza tra errore ed errante”. Perciò risulta tanto più pericoloso e fuorviante addentrarsi nei meandri insondabili delle coscienze individuali per sindacare sull’autenticità dei sentimenti religiosi di questo o quell’esponente politico.
Molto più utile è applicare la lezione del Concilio Vaticano II e cioè, valorizzare ciò che unisce anziché ciò che divide. E qui torna utile proprio il primo Papa che non ha potuto, per motivi anagrafici, partecipare a quella storica assise episcopale, ma che ne incarna lo spirito meglio di chiunque altro. “Per dialogare bisogna saper abbassare le difese, aprire le porte di casa e offrire calore umano”, insegna Francesco. Dunque se i Papi, persino all’epoca delle invasioni barbariche uscivano dalla Città Eterna per andare incontro ai “conquistatori” in segno di pace, perché noi, uomini di Chiesa, dovremmo oggi chiudere le porte a quanti cercano un’interlocuzione sui temi di interesse comune? Un esempio concreto. Tra qualche mese, per espressa richiesta della Corte Costituzionale, l’Italia dovrà mettere mano alla legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Non è meglio discuterne prima con chi sta riscrivendo la norma piuttosto che lamentarsi dopo dell’esito? Allo stesso modo, invece di scandalizzarsi per manifestazioni esteriori di religiosità, non sarebbe più proficuo tentare di offrire ascolto a quanti chiedono di potersi confrontare con la Chiesa nelle sue varie espressioni?
L’intelligenza non ha paura del confronto, lo auspica. Se c’è una lezione che possiamo trarre dai risultati elettorali di queste ore è che nel dialogo autentico tutte le parti devono essere disposte a cambiare. In democrazia nessuno ha il monopolio della presentabilità. Farsi ascoltatori non implica un’identità fragile. Anzi, chi è sicuro delle proprie convinzioni non teme alcun interlocutore.