Per la Chiesa, l’impegno dei cattolici in politica non è in questione, come hanno ribadito con forza e in più occasioni san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco. Tale presenza è un dovere-diritto per una doppia serie di motivi: di ragione e di fede. Esiste in ognuno una vocazione umana al bene comune. Parlando delle ragioni che dovrebbero spingere ad un impegno responsabile nel campo della politica, Jorge Mario Bergoglio , il 1° ottobre 2017 in Piazza del Popolo a Cesena, in occasione della sua visita nel terzo centenario della nascita di Pio VI, ha ricordato che è essenziale lavorare tutti insieme per il bene comune.
Dal discorso del Pontefice emergono alcuni elementi fondamentali. Nessuno può sentirsi, quindi, esonerato dalla sollecitudine nei confronti del bene comune e della giustizia sociale. Peraltro, ogni persona, in quanto inserita in Cristo che ricapitola in sé tutte le cose, possiede una vocazione cristiana all’impegno sociale e politico. Tutti devono coltivare l’impegno di lavorare per il bene comune, perché tutti, adulti o giovani, sono cittadini e hanno una vocazione al servizio del bene comune. Orizzonte e fine dell’impegno è la buona politica, amica delle persone, inclusiva e partecipativa, che non lascia ai margini nessuno, che tiene il timone fisso nella direzione del bene di tutti.
Per questa ragione, bisogna prepararsi in modo da essere in grado di agire efficacemente in prima persona. Chi intende impegnarsi direttamente in politica deve prendere la propria croce e sapere che potrebbe essere un “martire” al servizio di tutti. L’agire politico, in nome e a favore del popolo, è una nobile forma di carità. Il che esige coerenza dai protagonisti della vita pubblica. Essi vanno accompagnati con una critica costruttiva. Non è lecito fermarsi a guardare da un balcone, nella speranza del fallimento del proprio avversario. Occorre dare, “hic et nunc”, il proprio contributo, riscoprendo il valore della dimensione sociale della convivenza.
Per chi vive in Cristo c’è una vocazione cristiana alla vita della “res publica”, all’impegno di portarla a compimento in Dio. Siamo sollecitati a vedere la nostra vita e la nostra azione, in tutti i campi, fondate su Gesù Cristo; anzi, innestate in Lui, che ha assunto l’umano divinizzandolo. E questo, perché Egli si è fatto carne e, con tale misterioso evento, ha assunto e indirizzato anche le nostre vite verso quella completa realizzazione che si attua soltanto in Lui. Dobbiamo, pertanto, vivere la nostra chiamata al sociale, al bene comune, tendendo a quella pienezza umana che ci è già stata donata in nuce dal Figlio di Dio. Ciò ci fa capire che siamo portatori di una vocazione cristiana al sociale e alla politica.
Non sempre ce se ne rende conto. Le ragioni dell’impegno in politica, al servizio del bene comune sono, in sintesi, anche di un ordine che sovrasta quello semplicemente razionale. L’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” di papa Francesco descrive bene Questa sollecitudine, tra l’altro, trova anche un preciso riscontro a livello di ordinamento costituzionale. Infatti, l’articolo 2 della Costituzione richiede “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economia e sociale”. La vocazione cristiana al bene comune non cancella, dunque, la vocazione umana allo stesso bene, non la ostacola, bensì la include, la lievita, la consolida nella sua giusta autonomia.
Altre ragioni di impegno dei cattolici in politica. Volendo specificare quanto detto, per una nuova stagione di impegno dei cattolici in politica vanno annoverate altre ragioni che sono ravvisabili. Ossia la radicazione in Cristo della nostra vocazione al sociale (a partire dalla considerazione del “kérygma”) e della nostra professione di fede. Noi crediamo in Dio Padre e nel Figlio, Gesù Cristo, che, incarnandosi, ha assunto e redento l’umanità, tutte le attività dell’uomo, compresa la politica. Crediamo nella Trinità. Crediamo di essere inseriti nella comunione e nella dinamica d’amore di un Dio uno e trino. Con questa professione, dichiariamo la nostra apertura e vocazione al sociale. Se professiamo Dio come Padre, professiamo la fraternità, riconoscendo gli altri come fratelli e, quindi, consapevoli di vivere in una stessa famiglia. La famiglia umana, che è anche la famiglia di Dio.
Parimenti, se diciamo di credere nel Cristo, Figlio incarnato, affermiamo in sostanza che ogni uomo è stato elevato alla dignità di figlio di Dio: la dignità della persona è la dignità di figlio di Dio. Questo, evidentemente, comporta una particolare attenzione nei confronti dell’altro, di ogni altro. Analogamente, se professiamo la Trinità, dichiariamo che il nostro modello di vita e la nostra meta sono la vita comunitaria di Dio.
E’ fondamentale quell’apporto originale di umanizzazione che solo il cristianesimo ha dato ed è in grado di offrire in modo particolare oggi, in un contesto di neoindividualismo e di neoutilitarismo libertario, con riferimento: alle persone concepite nella loro integralità, alla vita – dalla nascita alla morte naturale. In un tempo in cui vita e morte non sono più espressione della sacralità del mistero, ma sono divenuti beni commerciabili e negoziabili, basta avere soldi e la pretesa che il proprio arbitrio diventi un diritto soggettivo che ipso facto deve essere tutelato dall’ordinamento statale. C’è poi la libertà legata alla verità, al bene comune. Non considerato in senso hobbesiano, ossia come un limitare i condizionamenti negativi, bensì in senso cristiano, tommasiano, come un creare le condizioni che consentono l’attuazione del bene comune. Da evidenziare è inoltre la fraternità come principio architettonico della democrazia, all’umanesimo trascendente. Alternativo al transumanesimo immanentista. Con riferimento allo sviluppo integrale, inclusivo, all’ecologia integrale, ad una democrazia samaritana, ad una società relazionale, intesa come un noi sempre più grande, ad una politica sempre più impastata di pensiero pensante e meno di tecnica, ad un’economia a servizio di tutti, ad un welfare di comunità e generativo.