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Le basi poste con il decreto lavoro

Maggio, il mese appena iniziato, è uno di quei periodi dell’anno particolarmente duri nel rapporto Stato-cittadini. Le scadenze fiscali importanti da ricordare, tra cui quella scaduta ieri relativa all’invio della dichiarazione IVA 2023, sono talmente tante da far perdere la testa. Per esempio il contribuente potrà iniziare a prendere visione del modello Redditi e del modello 730 precompilato. Dal giorno 11, poi, si potrà modificare e/o inviare la dichiarazione precompilata. In scadenza a maggio anche il pagamento della prima rata dei contributi Inps artigiani e commercianti, anno contributivo 2023. E a voler continuare l’elenco sarebbe lungo, lunghissimo. Perché più che di burocrazia, questo Paese, sembra sempre essere affetto dalla scadenzite, dai termini di pagamento e di presentazione dei documenti.

Ma tutto questo, direte voi, cosa c’entra con il taglio del cuneo fiscale varato dal governo con il decreto lavoro? A voler essere pigri nulla. In realtà tutto ciò c’entra eccome. Perché se lo Stato non è nelle condizioni di sfoltire le leggi, ridurre le scadenze, accorpare gli adempimenti, che almeno renda qualcosa ai contribuenti. Anche poco, come sostiene l’ex premier, Matteo Renzi, secondo il quale i 4 miliardi sono bazzecole rispetto ad altri provvedimenti, ma pur sempre qualcosa in tempi di vacche magre. La finanza speculativa solo da qualche settimana ha mollato la presa sull’Italia, e gli effetti benefici li vedremo nei prossimi mesi, a dimostrazione di come le mosse del governo hanno un senso. E volendo subito regolare i conti con le cassandre di sventura, in marcia sin dalla genesi del provvedimento varato dall’esecutivo il primo maggio, in un Consiglio dei ministri dedicato ai lavoratori, guarda caso nel giorno della loro festa, conviene spiegare che non si tratta certo di un pacchetto di misure risolutive, tantomeno magiche, ma di un atto di buona volontà nei confronti degli italiani. Ai quali non si può non dare dei segnali.

Volendo riassumere in estrema sintesi il Decreto lavoro prevede un robusto taglio del cuneo fiscale-contributivo di quattro punti aggiuntivi tutto a vantaggio dei lavoratori, ma una tantum. Insieme alla riforma del Reddito di cittadinanza, sostituito dall’Assegno di inclusione per offrire un sostegno economico ai nuclei familiari in difficoltà, e da uno strumento di attivazione destinato agli “occupabili” per rimborsare la frequenza ai corsi di formazione o riqualificazione professionale, Palazzo Chigi prova a scommettere sulle politiche attive per il lavoro e non sull’assistenzialismo di Stato fine a se stesso. Il cambio di passo non sarà rapido, tantomeno indolore, ma per molti aspetti è necessario. Tecnicamente c’è da vincere una battaglia culturale, smontando l’idea del poco garantito come bene rifugio per quelle fasce di persone in fuga dall’offerta di lavoro, ritendo le condizioni dettate dal mercato troppo penalizzante. I camerieri, per dire, continuano a mancare nelle strutture alberghiere e nei ristoranti. Ad oggi nessuno strumento si è sostituito all’occupazione, allo svolgere una mansione, nel dare dignità ad una persona disoccupata. Il reddito di cittadinanza, salvo casi eccezionali, non può continuare ad essere l’elemento distorsivo di una società basata sul lavoro. Gli imprenditori devono poter fare gli imprenditori, investendo, e i dipendenti devono essere considerati fattori strategici. Per questa ragione il Decreto lavoro pone le basi per una prospettiva diversa, tutta da costruire e armonizzare, sia chiaro, senza fare sconti a nessuno.

Ma da una parte era necessario partire. Sui contratti a termine, per esempio, viene allentata la stretta operata dal cosiddetto decreto Dignità, introducendo nuove causali, alle quali occorre far riferimento in caso di proroga o rinnovo dopo i primi 12 mesi di durata. Le ragioni che giustificano il proseguimento dopo i primi 12 mesi del contratto a termine “a causale” sono tre: la prima sono i casi previsti dai contratti collettivi. La formulazione della bozza del Dl va interpretata in senso ampio intendendo sia la contrattazione nazionale, che quella aziendale o territoriale. In assenza della previsione della contrattazione collettiva si apre alla stipula di patti individuali, che sono la seconda “causale”. Cioè, il contratto a tempo determinato può proseguire oltre i 12 mesi per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti, entro la scadenza temporale del 31 dicembre 2024. La terza “causale” fa riferimento alla sostituzione di altri lavoratori. Ma, soprattutto, ai datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato (incluso l’apprendistato) i beneficiari del nuovo assegno di inclusione è riconosciuto un esonero contributivo del 100%, fino cioè a 8mila euro l’anno, per 12 mesi. L’esonero sale a 24 mesi in caso di trasformazione di un contratto a termine. Solo con meccanismi premianti s’incentiva la domanda, sempre che vi sia risposta da parte di chi chiede, altrimenti resta un dialogo fra sordi.

Detto ciò sullo sfondo resta sicuramente il rumore di fondo del duro scontro fra governo e sindacati, tornati a duellare come non si vedeva da anni. Che la dialettica sia il sale e il pepe della politica non c’è dubbio, ma quando si eccede con le dosi c’è il rischio di rendere la pietanza immangiabile. Delle spallate in piazza da parte delle organizzazioni dei lavoratori abbiamo antica e consolidata memoria, al punto da sconsigliare Landini e gli altri segretari dall’imboccare quella strada, pagante politicamente ma rischiosa dal punto di vista sociale. Mai come ora il Paese ha bisogno di un solido collante, e il lavoro, l’occupazione, resta il migliore. Perché quando l’agenda ci ricorda le scadenze fiscali contano i soldi disponibili, non i principi irrinunciabili.

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