Non c’è progresso senza pace. “Il nostro pensiero va alla gente dell’Ucraina. La cui sofferenza vogliamo che sia circondata dalla nostra preghiera. Mentre facciamo appello a quanti hanno nelle loro mani il governo dei popoli. Per convertire i cuori e le decisioni ai progetti di pace di Dio. Egli è il padre di tutti”, ha detto il cardinale Giuseppe Betori. L’arcivescovo di Firenze ha concluso così l’incontro “Mediterraneo frontiera di pace”. Nel capoluogo toscano si sono riuniti i 60 vescovi e 65 sindaci dei Paesi affacciati sul Mare nostrum. “La dignità umana viene ferita da divisioni e guerre. E ne soffrono i piccoli e i deboli. A nome loro chiediamo per l’Ucraina gesti di pace”, evidenzia il cardinale Betori.La pace permea il Vangelo. E’ il “programma” di Jorge Mario Bergoglio per il “Popolo di Dio”. Su solide basi conciliari. Nella costituzione “Lumen Gentium“, il secondo capitolo porta come titolo “Il Popolo di Dio“. Una prospettiva che permise al Concilio Vaticano II di superare la visione piramidale e clericale propria del modello di Chiesa-istituzione. Dei membri di questo Popolo disse, appunto, che “i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo”. Che partecipano pure “dell’ufficio profetico di Cristo”. E che “la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere. E manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo”. Segue la stessa logica il quarto capitolo della costituzione conciliare. Quello dedicato ai laici nella Chiesa. Dove si asserisce solennemente: “Nel Popolo di Dio che è la Chiesa vige fra tutti una vera uguaglianza. Riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli. Nell’edificare il corpo di Cristo“. Francesco dimostra di aver assimilato profondamente la prospettiva conciliare. E lo lascia trasparire costantemente. Sia nei suoi scritti. Nella sola esortazione “Evangelii Gaudium” usa per ben 164 volte la parola “popolo”. Sia soprattutto nel suo modo di agire come vescovo di Roma. E come papa della Chiesa universale. Il gesto di chinarsi davanti al popolo credente radunato in piazza San Pietro il giorno della sua elezione. Per chiedere una preghiera di benedizione per lui prima di dargliela lui stesso. “Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me”. Un gesto carico di significato da questo punto di vista. Implica la visione di una Chiesa in cui non c’è divisione tra coloro che la presiedono e gli altri suoi membri. Perché tutti e ognuno sono membri, allo stesso titolo radicale, dell’unico Popolo di Dio in Cristo. Pur nella diversità dei servizi. “La Chiesa siamo tutti. Dal bambino recentemente battezzato fino ai vescovi. Al Papa. Tutti siamo Chiesa. E tutti siamo uguali agli occhi di Dio!”, sostiene Francesco. E aggiunge: “La Chiesa siamo tutti, tutti! Tutti noi! Tutti i battezzati siamo la Chiesa. La Chiesa di Gesù”. In Argentina Jorge Mario Bergoglio si era mosso teologicamente e pastoralmente nella linea della “teologia del popolo“. E ad essa ispira attualmente il suo servizio petrino. Tanto nei suoi scritti quanto, soprattutto, nei suoi atti. Chiesa in uscita, verso le periferie. Della costituzione pastorale “Gaudium et Spes” papa Francesco dimostra di aver recepito fondamentalmente la sua opzione di de-centramento. Il secondo passo del rinnovamento conciliare produsse, infatti, una vera svolta copernicana nella coscienza ecclesiale. Non più una chiesa centrata su sé stessa,
rischio che minacciava il modello di Chiesa-comunione. Ma sull’altro, sul mondo. Lo si coglie nella sua solenne dichiarazione iniziale. “Il Concilio non potrebbe dare una dimostrazione più eloquente di solidarietà. Di rispetto. E d’amore verso l’intera famiglia umana. Che mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa riceve dal suo Fondatore. Si tratta di salvare l’uomo, si tratta di edificare l’umana società“. Una opzione che si concretizza nel mettere al centro delle sue preoccupazioni non i bisogni e i problemi propri. Ma il mondo con le sue gioie e le sue speranze. Le sue tristezze e le sue angosce attuali. Il Concilio attuò questa opzione focalizzando in partenza i gravi problemi economici. Sociali. Politici. E culturali del mondo. In applicazione del metodo del vedere-giudicare-agire. Cercando di tracciare delle linee di soluzione. Ciò gli valse l’accusa di orizzontalismo sociologizzante. Di tradimento della dimensione verticale della fede. Di oscuramento della trascendenza. Di infedeltà alle esigenze della religione in quanto rapporto con Dio. Accusa a cui diede magistralmente risposta Paolo VI nella sua allocuzione a conclusione del Concilio. Appellandosi all’antica storia del Samaritano, “paradigma della spiritualità del Concilio». Fu in quel discorso che Paolo VI pronunciò le parole programmatiche che sintetizzano il punto più alto del rinnovamento conciliare. “La Chiesa si è dichiarata quale ancella dell’umanità. Proprio nel momento in cui maggiore splendore e maggiore vigore hanno assunto. Mediante la solennità conciliare. Sia il suo magistero ecclesiastico. Sia il suo pastorale governo. L’idea di servizio ha occupato un posto centrale“. Una Chiesa, quindi, come ama ripetere spesso papa Francesco, che non è autoreferenziale. Ma “in uscita”, “con le porte aperte“. Al servizio del Popolo di Dio e della pace.