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Avvento, quale tempo ci accingiamo a vivere

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“Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20). L’ultima parola con la quale si conclude la Bibbia è l’invocazione che apre e dà inizio all’anno liturgico. Con la prima domenica di avvento inizia un nuovo periodo che ci condurrà nei misteri della vita di Gesù, dove rivivremo in modo particolare due grandi eventi che caratterizzano la vita di ogni cristiano: l’incarnazione (Natività) e la risurrezione (Pasqua).

La parola di Dio proclamata nell’avvento raggiunge le attese e le ricerche dell’umano e fa chiarezza, in quanto si agita confusamente nel cuore e nella mente, invita a persistere nell’attesa e ne annuncia il compimento.

La teologia dell’avvento ruota attorno a due prospettive principali. Da una parte con il termine adventus (venuta, arrivo) si è inteso indicare l’anniversario della prima venuta del Signore; dall’altra sottolinea la seconda venuta che sarà alla fine dei tempi. Questo tempo che ci accingiamo a vivere è quindi tempo di preparazione alla solennità del Natale, e insieme è il tempo in cui lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta.

Nell’avvento celebriamo anche il mistero sempre in atto della venuta di Gesù, quella venuta che copre l’intero arco della vicenda personale e dell’intera storia umana. L’attesa che celebriamo è unica e i suoi momenti sono legati insieme: l’avvento di Cristo nella carne è proiettato verso l’avvento quotidiano nella Chiesa e nell’umanità; questa a sua volta tende verso il ritorno di Cristo: la parusia è il termine ultimo dell’attesa. Essa è una situazione non di semplice passività ma di osservazione e discernimento, in quanto tesa verso il giudizio di Dio, che interpella la vita di fede e chiede di farsi trovare pronti.

La parola chiave che percorre le letture della prima domenica di avvento è la giustizia ma, stimolati dal tema che il papa Francesco ha scelto per il Giubileo, aggiungiamo anche la parola speranza. Nel profeta Geremia (prima lettura) è chiara la contrapposizione tra, da una parte, una giustizia umana fallimentare (portata avanti dai re) e una giustizia divina che sarà capace di salvare il popolo. L’immagine diventa emblematica. Si tratta di “un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra” (33,15).

Nel salmo responsoriale non si parla esplicitamente di giustizia ma la metafora della strada sottintende la necessità di seguire la giusta direzione. L’orante chiede al Signore di istruirlo affinché possa riconoscere la sua condizione di peccatore che umilmente può convertirsi.

Anche nella seconda lettura sono presenti delle raccomandazioni morali e soprattutto c’è il riferimento alla parusia a cui è associato il giudizio di Dio. I cristiani devono quindi essere saldi e irreprensibili nella santità (1Ts 3,13) e questo garantirà loro un esito positivo del giudizio. L’apostolo ci suggerisce quello che dobbiamo fare: ci dice di far crescere il seme del battesimo. Mentre i credenti fissano con impazienza “nuovi cieli e nuova terra”, Paolo propone un atteggiamento di fondo con cui saper attendere e capire il senso della nuova storia che sta per iniziare. L’attesa della venuta finale di Cristo, lungi dall’essere un pigro e disimpegnato aspettare, vuol dire la costruzione di un’esistenza di amore.

Tutti questi elementi sono ripresi e sviluppati nel Vangelo dove la prospettiva del giudizio finale fonda le motivazioni degli atteggiamenti spirituali ed etici del credente. Non sono semplicemente dei consigli saggi per una vita sana, ma devono essere letti in prospettiva escatologica. Da questo atteggiamento di fondo deriva uno stile di vita che ha a che fare con le scelte nella quotidianità (Lc 21,34). Il cuore non deve essere “appesantito”, come potrebbe essere per lo stomaco, da una digestione spirituale difficile. Le crapule, le ubriacature, le ansietà portano a uno stato mentale intossicato, dipendente, sempre esagerato e polarizzato. I soggetti che si abbandoneranno a queste condotte di vita saranno intrappolati dal “giorno del Signore”. Il sonno e la notte rappresentano la componente figurativa del peccato e della negazione di Dio. Viceversa il digiuno e la vigilanza sono come un’armatura di fede e un elmo di speranza in vista della salvezza. E’, infine, da sottolineare il fatto che la vigilanza sia accompagnata dalla preghiera costante (v. 36). Vegliare e pregare consentono di scappare non nel senso di una fuga vigliacca ma nel senso positivo di essere “profughi” del Signore, ovvero coloro che hanno trovato il loro rifugio in Dio (cfr. Eb 6,18).

don Simone Caleffi: