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Appartenere a un clan mafioso è incompatibile con l’essere cristiano

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Chiesa e mafia sono realtà totalmente opposte, quindi l’appartenenza a un clan mafioso è incompatibile con l’essere cristiano. La storia della lotta alla criminalità organizzata lo conferma. Nel 1992, vi sono state le varie stragi che hanno portato le morti di Falcone e Borsellino, ma vi erano state altre stragi di poliziotti e di giudici precedentemente. Nel 1993, il 9 maggio c’è il discorso di Giovanni Paolo II ad Agrigento, in cui invita i mafiosi a convertirsi, perché un giorno arriverà il giudizio di Dio, quindi un discorso religioso, l’invito alla conversione con la categoria del giudizio di Dio. Alcuni mesi dopo, in estate, vi sono stati alcuni attentati ad alcune chiese, a San Giovanni in Laterano, che è sede della cattedrale del Papa, e a San Giorgio al Velabro e non stati a caso: la mafia in quel momento ha incominciato a capire come con la Chiesa non poteva più scendere a patti.

La Chiesa era un nemico potente, per cui aveva paura di attaccarla frontalmente, però voleva darle dei segnali, e il terzo segnale è stato dato con l’uccisione, il giorno del suo compleanno, di don Pino Puglisi. E’ stata un’uccisione che la mafia ha cercato di mascherare, perché, è stata usata una pistola di basso calibro, che solitamente non si usa negli omicidi mafiosi, a don Puglisi  è stato tolto il borsello, gli è stato detto che era una rapina, come risulta negli atti giudiziari. In realtà questo omicidio è scaturito in odio alla fede. Perché don Puglisi, con il suo ministero sacerdotale di catechesi, di educazione dei bambini, di aggregazione della famiglie, costituiva nel quartiere un “contraltare alla mafia”, che dominava qual quartiere.

Allora i mafiosi del quartiere Brancaccio, i Graviano, hanno capito che bisognava eliminarlo. Il martirio di don Pino Puglisi è stato una conseguenza non ricercata di un’umile volontà quotidiana di seguire il Signore, senza spettacolarità o protagonismo. Erano gli anni in cui a Palermo c’erano anche dei preti anti mafia, preti con la scorta, preti che partecipavano a trasmissioni televisive. Don Pino non partecipava a trasmissioni televisive, non aveva la scorta, non l’aveva neanche chiesta, era un prete che con l’educazione dei giovani toglieva alla mafia il terreno sotto i piedi, e quindi la mafia l’ha ucciso perché la logica mafiosa è incompatibile con quella del Vangelo.

Don Pino Puglisi scrisse: ”E’ importante parlare di mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi. Non ci si fermi però ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore ma, se ci ferma a questo livello, sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti”. Sulla figura di don Puglisi invito a leggere il romanzo “Ciò che inferno non è” di Alessandro D’Avenia. Il suo martirio è stato in quanto prete, questo è stato determinante per riprendere la causa di beatificazione che rischiava di arenarsi. Mi pare interessante quello che scrisse Gianni Baget Bozzo: “Don Puglisi non è stato ucciso per ammonimento o per rappresentanza, è stato ucciso perché era lui, e per quel che faceva. E’ stato ucciso perché prete cattolico, perché sacerdote di Cristo. E in questa morte noi leggiamo la morte di un prete per il suo ministero”.

La testimonianza di don Puglisi, il suo coraggio, sia una testimonianza profetica, perché indica alla Chiesa, e quando parlo di Chiesa non mi riferisco soltanto ai sacerdoti ma ad ogni cristiano, una via, la via evangelica di testimoniare Cristo, di seguire Cristo, che comporta anche il rifiuto del male e quindi il rifiuto della mafia, come una forma pratica di ateismo. Don Pino diceva “noi abbiamo un Padre Nostro”, per questo ha intestato il suo centro al Padre Nostro, “non abbiamo bisogno di padrini”. Dire questo in quell’ambiente significava in qualche modo delegittimare i fratelli Graviano, delegittimare la mafia.

E’ interessante come nel verbale degli interrogatori dei suoi uccisori risulti come, colpendo don Pino, si volesse colpire la Chiesa. Si voleva colpire un prete scomodo, che invece di limitarsi soltanto a fare le processioni, magari facendole gestire al comitato di certi mafioso, invece educava alla fede, educava al Vangelo. Ad un certo punto un mafioso dice “questo prete predicava tutta ‘a iurnata”, cioè tutto il giorno. Questo dava fastidio. E poi mi sembra interessante in questo libro, il fatto che si insista sul perdono. Perché don Pino voleva parlare con i mafiosi, voleva che si confrontassero con lui. Don Pino, un momento prima che venisse ucciso, ha detto “me l’aspettavo” ed è morto con il sorriso sulle labbra, un sorriso che significa perdono ma significa anche speranza, significa che il cristiano, il prete che crede che l’amore di Dio è più forte della morte, sa che alla fine l’amore di Dio è vincitore. Possiamo, perciò, ripetere per don Pino: “Se il granello di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore produce molto frutto”.

mons. Michele Pennisi: