A convocare la storica giornata di preghiera, digiuno e carità per la fine della pandemia sono promotori il cui nome già racchiude il significato di una mobilitazione spirituale senza precedenti. Gli “artigiani della fraternità”, così definiti da Papa Francesco, non sembrano aver beneficiato della cassa di risonanza dei media planetari, ma come accade per ogni fenomeno autenticamente rivoluzionario la risposta arriverà dal popolo. Non solo cristiani e musulmani, come nella dichiarazione di un anno fa, ma chiunque abbia a cuore il futuro dell’umanità. Per riscoprirci realmente fratelli occorre riconoscere la bontà di un Padre comune. Tre parole (preghiera, digiuno e carità) sono il piano di ripartenza per un mondo che altrimenti rischia di ignorare superficialmente la tragica lezione dell’emergenza sanitaria universale. Per pregare davvero serve la consapevolezza del proprio limite e la disponibilità a invocare dal Cielo la capacità di cambiare. Ieri, il Pontefice ha dedicato per intero un’intensa catechesi del mercoledì, quasi fosse un semplice insegnante di religione, ad una straordinaria e commovente illustrazione del valore individuale e collettivo della preghiera. Come in preparazione alla giornata odierna nella quale milioni di persone alzeranno gli occhi e le mani verso l’alto per implorare la liberazione dalla pandemia. E qui entra in gioco il secondo termine-chiave e cioè il digiuno, da intendersi non solo come astinenza dal cibo ma come apertura alla gratuità. In un’epoca spadroneggiata da cannibali di potere, ricchezza e ingordigia comunicativa, l’azzeramento per ventiquattro ore della vana battaglia per la celebrità può rientrare a pieno titolo nella richiesta di digiuno formulata dal comitato organizzatore.
La cultura dello scarto, di cui parla Francesco, si collega strettamente a quella del dono che il suo predecessore Benedetto XVI ha profeticamente contrapposto a quella diffusissima ignavia sociale che impedisce di rinunciare ad un edonismo utilitaristico basato sul rifiuto di ogni rinuncia, anche quella per un bene incomparabilmente più elevato, come la salute pubblica. Chi disconosce il valore del sacrificio si ritrova dipendente da qualunque condotta compulsiva e istintuale. Essere pronti a sacrificarsi è l’opposto della negazione di se stessi. Ad Assisi i tre ultimi Papi, affiancati da tutti i leader religiosi mondiali, hanno tolto qualsiasi pretesto alla strumentalizzazione del nome di Dio finalizzata a giustificare violenze contro il prossimo, condotte autolesionistiche e mistificazioni di un fantomatico e mendace interesse superiore. Sacrificarsi equivale ad accogliere la grazia della conversione. Ma, come insegna San Paolo, la fede si riconosce dalle opere e la carità è l’appellativo prediletto da Dio. Il sacrificio più autentico, nella sequela di quello del Risorto, è disciplinare se stessi per evitare di cadere nella perversione del falso piacere, nella mormorazione, nel turpe chiacchiericcio che uccide l’altro con la lingua più che con la spada, nel carrierismo dei pavoni che si gloriano della loro preminenza tutta terrena su chi li circonda.
Anche tenere lontani i sette vizi capitali, almeno un giorno, è un provvidenziale digiuno anche per coloro che non si riconoscono in alcuna religione rivelata. Per chi è costantemente in vista, digiunare è anche uscire dal riflettore autoreferenziale dei social, della litigiosità a tutti i costi, del protagonismo senza contenuti. Una famelica rincorsa che espone costantemente al rischio di scivoloni e di ridicoli dietrofront.
Da millenni digiunare purifica l’organismo, auspichiamo che almeno per un giorno bonifichi anche la vita pubblica. Gli operatori della carità sanno bene che aiutare gli ultimi è un beneficio interiore soprattutto per se stessi. Richiamare l’attenzione generale sui fratelli più bisognosi significa proclamare la dignità di ogni creatura. Francesco ha da poco ribadito che Dio conosce per nome ogni vittima della pandemia e, citando il Libro dell’Esodo, ha evocato due eroiche e umili servitrici della vita, le levatrici Sifra e Pua. Un modo per dire che il servizio è la vera potestà. Il virus da combattere, infatti, non è solo il Covid ma anche la spasmodica ricerca di una ribalta che offre illusioni invece di soluzioni concrete.