Siamo nel pieno dello sviluppo delle tecnologie digitali e, nei luoghi di lavoro, almeno quelli dell’impresa privata, l’acquisto e l’utilizzo dei nuovi strumenti avvengono con grande impegno. L’intento è quello di non perdere la sfida della competitività nella corsa per accaparrarsi le commesse. Infatti, l’impiego delle nuove tecnologie nelle attività produttive migliorano i tempi, la qualità e dunque la produttività e la redditività. Ma in questi casi – nonostante le cose vadano bene – la percezione che si ha è che i posti di lavoro diminuiscano.
Insomma, la modernità da che è mondo suscita paura. Rompendo l’equilibrio preesistente, facilmente si è portati a pensare che si sprigioni una nuova fase di avvento di disgrazie. La storia dell’umanità e del mondo del lavoro è attraversata da millenni di progresso tecnologico. Dalle prime tecnologie agricole alle prime macchine della rivoluzione industriale partita già alla fine del diciottesimo secolo, fino alla diffusione dei personal computer e della digitalizzazione che ha fatto crescere esponenzialmente il terziario ed i servizi. Analizzando queste esperienze, dai dati risultano sempre aumenti di posti di lavoro al netto delle periodiche crisi economiche. Gli economisti hanno sempre concordato che l’incremento della produttività e della redditività ha ricadute assai evidenti nella espansione del terziario.
Cresce la ricerca e lo sviluppo, la comunicazione, la pubblicità, la distribuzione, la qualità dei servizi destinati ai clienti. Si trasferiscono risorse in altri settori produttivi come servizi professionali, trasporti e logistica, software, design. Se andiamo ad indagare i dati occupazionali degli ultimi 40 anni, epoca di grandi trasformazioni tecnologiche applicate alle produzioni, ci rendiamo conto che pur avendo perso circa un milione di addetti nell’industria come in agricoltura, nei servizi però si sono creati 5 milioni di nuovi posti di lavoro.
Dunque si avvera la profezia del noto economista austriaco Joseph Schumpeter che già nel secolo scorso sollevava la teoria della forza distruttrice delle nuove tecnologie rispetto alle vecchie, che rendono inservibili le vecchie professionalità e la vecchia organizzazione del lavoro. Ma dalla distruzione del vecchio, contemporaneamente afferma lo scienziato, si creano nuove opportunità che addirittura per quantità e qualità superano le condizioni precedenti. L’unica avvertenza da avere per non pagare danni da parte dei lavoratori è quella di accelerare l’acquisizione di nuove abilità professionali in grado di padroneggiare la nuova organizzazione del lavoro imperniata su nuovi presupposti tecnici.
Le autorità di governo e le forze sociali dovrebbero dunque impegnarsi sopratutto a migliorare la scuola, l’università e la formazione continua su questo versante, invece di pensare a bonus e a compensazioni che rendono ancora più costosa ed irrisolta la problematica della transizione che porta allo sviluppo. Infatti i lavoratori preparata troveranno presto il lavoro ben remunerato. Gli impreparati dovranno giustamente essere sussidiati a causa della perdita del posto, ma verranno privati della stabilità lavorativa e della dignità che si conquista nel procurarsi il sostentamento per se stessi e per la propria famiglia attraverso il proprio genio ed i propri mezzi.