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“Abbi cura di lui”: perché Papa Francesco ci invita ad avere compassione dei malati

Si intitola “Abbi cura di lui. La compassione come esercizio sinodale di guarigione” il messaggio del santo Padre Francesco in occasione della XXXI Giornata mondiale del malato che ricorre l’11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes. Il malato è quella persona che, in ogni fase della sua vita, può avere delle difficoltà nel fisico, a volte nella mente, nelle relazioni. Tutti noi potremmo essere toccati dall’esperienza della malattia, transitoria o purtroppo duratura, ma è la cura, l’amore che ci circonda in quei momenti che fa emergere la dignità e l’importanza della persona. Come Comunità Papa Giovanni XXIII, da molti anni accogliamo nelle nostre case i malati. Ci dicono che la sofferenza è data anche dalla solitudine. La compassione guarisce, perché far star meglio la persona anche quando è gravemente malata.

E proprio su questo punto, nella sua infinita saggezza, Papa Francesco ha voluto sottolineare che la malattia può diventare disumana se vissuta nell’isolamento e non è accompagnata dalla cura e dalla compassione. Tutti noi, però, abbiamo una concezione sbagliata del termine compassione: pensiamo che significhi provare pena per qualcuno. Ma non è così. Compatire vuol dire “soffrire con”, portare i pesi gli uni degli altri, mettere la spalla sotto la croce, è donarsi, diventare attivi nella compartecipazione nel portare anche il dolore degli altri. Questa interpretazione che molte volte gli viene data è platonica, molto riduttiva e individualista. La vera compassione è costruire un popolo in cui si è attenti ai deboli, ai fragili e si cammina con loro.

Abbi cura di lui“, sono le parole che il buon Samaritano dice all’albergatore. Vuol dire che non possiamo delegare ad altri la scelta della condivisione, ma dobbiamo farla in prima persona. Il sacerdote e il levita, che conoscevano la Sacra Scrittura a memoria, non si interessano a quel povero in fin di vita sul ciglio della strada, se ne vanno per i fatti loro. Il Samaritano, considerando un peccatore, si prende cura di quell’uomo mezzo morto. La sua compassione lo spinge a fare anche un ulteriore passo in avanti: coinvolge anche altri, ma non come sostituzione, ma come ampliamento della cura. Il Samaritano dice all’albergatore: “Abbi cura di lui, al mio ritorno ti rifonderò con i miei denari”. Donando del suo, coinvolge una terza persona nel fare il bene. Così la compassione diventa contagiosa, un contagio capace di smuovere le montagne.

Paolo Ramonda: