«Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa… nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, …in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce».
Sono, queste, le parole di esordio della Dichiarazione Nostra aetate, promulgata dal Concilio ecumenico vaticano II il 28 ottobre 1965. Sono parole preveggenti, alla prova dei fatti odierni – soprattutto è profetica la constatazione della frantumazione del genere umano provocata dalle disuguaglianze e da una globalizzazione economica e finanziaria che, invece di unificare tutti gli esseri umani nel villaggio globale, li divide, li affama, mostrando per contrariam speciem il dato dell’interdipendenza. Parole le quali, piuttosto che nel passato, solamente da ricordare nel giorno anniversario, stanno ancora davanti a noi, nel futuro, come peraltro accadde nelle costituzioni, dichiarazioni e decreti del Vaticano II, che già indicavano le piste e i sentieri per cercare, nella luce della fede cristiana, la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la sua natura, il senso e il fine della sua vita, il bene e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo.
Più che una commemorazione del passato, il sessantesimo del Vaticano II, che si celebra a Roma con papa Francesco l’11 ottobre di quest’anno – giorno della memoria liturgica di San Giovanni XXIII, che quel Concilio aveva ideato già prima di salire al soglio pontificio – dal Papa buono fu infine inaugurato, nonostante le perplessità di alcuni. Nella sala capitolare del Monastero di San Paolo, Domenica, 25 gennaio 1959, san Giovanni ventitreesimo diede l’annuncio di tre grandi rinnovamenti: Sinodo romano, Concilio ecumenico, nuovo Codice di diritto canonico per le chiese orientali, ovvero ri-fondazione della Chiesa che presiede, a tutte le Chiese particolari, nell’amore, cuore pulsante della cattolicità che il Concilio ecumenico avrebbe dovuto auscultare nelle corde profonde: «Venerabili Fratelli e Diletti Figli Nostri! Pronunciamo innanzi a voi, certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione: di un Sinodo Diocesano per l’Urbe, e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale… Esse condurranno felicemente all’auspicato e atteso aggiornamento del Codice di Diritto Canonico, che dovrebbe accompagnare e coronare questi due saggi di pratica applicazione dei provvedimenti di ecclesiastica disciplina, che lo Spirito del Signore Ci verrà suggerendo lungo la via. La prossima promulgazione del Codice di Diritto Orientale ci dà il preannunzio di questi avvenimenti».
Nella solenne apertura del Vaticano II, Giovedì, 11 ottobre 1962, il Papa buono aggiunse con sguardo concreto e disilluso: «Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo».
E se, a distanza di tanti anni, qualcuno, quasi temendo il peggio, può ancora dire che la Chiesa è in ritardo di qualche centinaio d’anni, e qualche altro si spinga fino al punto da invocare un nuovo Concilio che tolga la troppa cenere che copre la brace ardente delle origini, gli si potrebbe ricordare che forse la cenere va tolta da quei documenti conciliari ancora vivaci e ardenti, che tanto innovarono nella teologia e nella prassi di laici e gerarchia, nei rapporti tra le fedi cristiane e nel dialogo con gli ebrei e le altre religioni non cristiane, nella vita consacrata, per citare solo qualcuno dei grandi carboni ardenti, che attendono l’attizzatoio. Ancora risuonano le parole d’inaugurazione di papa Giovanni: «Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I; occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi». Coraggio, speranza e volontà riformatrice, senza prestare ascolto alle sirene dei profeti di sventura di ieri, di oggi e di sempre.