30 anni senza cortina di ferro. Il ruolo della Ostpolitik
Trent’anni fa la bandiera sovieticafu ammainata dal Cremlino. Mikhail Gorbaciov si era dimesso mezz’ora prima. “Il crollo del Muro di Berlino non avrebbe dovuto portare alla fine dell’Urss”, afferma lo storico tedesco Peter Brandt. Figlio del cancelliere dell’Ostpolitik, Willy Brandt. Studioso delle relazioni tra Occidente e Russia. E dei rivolgimenti che portarono al collasso del gigante sovietico. “Non si capisce ciò che è accaduto in Europa alla fine del Novecento senza considerare il ruolo di Giovanni Paolo II”, disse l’ultimo leader sovietico mentre terminava la guerra fredda. Il primo Papa non italiano, dopo quattrocentocinquantasei anni. Un Papa che veniva dall’altra parte della “cortina di ferro”. Ed è qui che la storia aveva avuto un soprassalto. Perché, proprio grazie a chi in quel momento sedeva sulla cattedra di Pietro, Solidarność prima aveva resistito alla repressione, e poi era diventato l’apripista del grande cambiamento in senso democratico all’Est. “Il comunismo è morto di comunismo, il moloch ha divorato se stesso”, scriverà Enzo Bettiza. Ma era stata la Polonia-“protetta” dal suo Papa- a dare il colpo del ko al regime marxista, ad accelerarne il tracollo, il definitivo fallimento. Lo aveva riconosciuto appunto Mikhail Gorbaciov, arrivato in Vaticano nel dicembre del 1989: “… tutto ciò che è successo nell’Europa orientale in questi ultimi anni non sarebbe stato possibile senza la presenza di questo Papa, senza il grande ruolo, anche politico, che lui ha saputo giocare sulla scena mondiale”. A questo punto, viene quasi naturale porsi una domanda. Ma se invece di un Papa polacco, e dunque un pontefice con quella provenienza, con quella biografia, con quella esperienza, ci fosse stato un Papa arrivato da un altro Paese comunista, ad esempio, diciamo, ungherese, oppure cecoslovacco, o tedesco-orientale, ebbene, la caduta del Muro e il tramonto del marxismo, sarebbero avvenuti in tempi così incredibilmente brevi? E senza contrasti, senza gravi contraccolpi e, soprattutto, senza spargimenti di sangue? Infatti, oltre che per la riunificazione dell’Europa, l’azione svolta da papa Wojtyla si era sviluppata su vari fronti. Era stata determinante per il ritorno di molti Paesi latino-americani alla democrazia. Per ridare voce e dignità ai popoli del Sud. E forse addirittura, al tempo dei conflitti del Golfo, per evitare una spaventosa “guerra di civiltà”. I suoi viaggi avevano fatto sì che la Chiesa– con una crescente autorevolezza morale– fosse più vicina al mondo, e il mondo, a sua volta, più vicino alla Chiesa. E spesso, nei momenti di crisi dell’umanità, con i “grandi” della terra pavidi e silenziosi, era stato soltanto lui, Wojtyla, a parlare. A intervenire. A denunciare. Soltanto lui a testimoniare la speranza in un futuro che poteva essere diverso. Nel segno della pace. Della giustizia. “Tutto può cambiare”, ripeteva di continuo. “Sì, noi possiamo cambiare il corso degli eventi“.Le persone che passeggiavano per la Piazza Rossa innevata di Mosca la sera del 25 dicembre 1991 sono state testimoni di uno dei momenti cruciali del XX secolo: la bandiera rossa sovietica sul Cremlino è stata ammainata per l’ultima volta. E sostituita con il tricolore della Federazione Russa. Pochi minuti prima, infatti, il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov aveva annunciato le sue dimissioni in un discorso televisivo. In diretta alla nazione. Concludendo così 74 anni di storia sovietica. Anche papa Wojtyla fu colpito dalla rapidità e, soprattutto, dal modo incruento in cui quegli eventi erano maturati. “Una delle più grandi rivoluzioni della storia”, commentò. Anzi, leggendola in una dimensione di fede, disse di accoglierla come un “intervento divino“. Come una “grazia”. E se non un fatto divino, ma sicuramente straordinario, fu la visita in Vaticano di Mikhail Gorbaciov, presidente di Stato sovietico e segretario del partito comunista. La prima volta, a settant’anni da quella Rivoluzione d’Ottobre, che avrebbe dovuto portare i cosacchi ad abbeverare i loro cavalli nelle fontane di piazza San Pietro. E, invece dei cosacchi, era venuto il capo di quell’impero ormai in rovina. E il Pontefice, per celebrare la grande festa della libertà, decise di compiere un “pellegrinaggio” nei Paesi ex comunisti. Cominciando da quello che gli era stato il più ostile, e il più chiuso al messaggio cristiano: la Cecoslovacchia. Il presidente, Václav Havel, volle ricordare che sei mesi prima, arrestato come nemico dello Stato, era ancora in carcere. E, adesso, dava il benvenuto al primo Papa slavo, al primo Papa che metteva piede in quella terra. E, benché laico, e non credente, Havel descrisse stupendamente quella scena. “Non so, se so, cosa sia un miracolo. Nonostante ciò, oso dire che, in questo momento, sto partecipando a un miracolo…”.Nelle sue memorie, Gorbaciov, ora novantenne, ha amaramente ricordato la sua incapacità di impedire la fine dell’Urss. Evento che evento che ha sconvolto l’equilibrio di potere mondiale e ha gettato i semi di un braccio di ferro in corso tra la Russia e la vicina Ucraina. “Mi rammarico ancora di non essere riuscito a portare la nave sotto il mio comando in acque calme. Di non essere riuscito a completare la riforma del paese”, ha evidenziato Gorbaciov. Intanto a superare la cortina di ferro concorrevano la ostpolitik vaticana e il Papa polacco Karol Wojtyla attraverso Solidarnosc. Il sindacato guidato da Lech Walesa. Mentre Gorbaciov cercava disperatamente di negoziare un nuovo “trattato sindacale” tra le repubbliche per preservare l’Urss, ha dovuto affrontare una dura resistenza da parte del suo arcirivale, il leader della Federazione Russa. Boris Eltsin era ansioso di impadronirsi del Cremlino. E aveva il sostegno di altri capi indipendenti di repubbliche sovietiche. L’8 dicembre, i leader di Russia, Ucraina e Bielorussia si sono incontrati in un padiglione di caccia. Dichiarando morta l’Urss. E annunciando la creazione della Comunità degli Stati Indipendenti (Csi),
Due settimane dopo, altre otto repubbliche sovietiche si unirono alla neonata alleanza. Offrendo a Gorbaciov una scelta netta. Dimettersi o cercare di evitare la disgregazione del paese con la forza. Il leader sovietico ha analizzato il difficile dilemma nelle sue memorie. Osservando che un tentativo di ordinare l’arresto dei leader delle repubbliche avrebbe potuto provocare un bagno di sangue. Tra le lealtà divise nei militari e nelle forze dell’ordine. “Se avessi deciso di fare affidamento su una parte delle strutture armate, ciò avrebbe inevitabilmente innescato un acuto conflitto politico irto di sangue e conseguenze negative di vasta portata”, ha scritto Gorbaciov.