Il 22 ottobre 1978 era domenica e nell’omelia per l’inizio del pontificato
il mondo ascoltò parole insolite eppure antiche di duemila anni. “Ancora mi rivolgo a tutti gli uomini, ad ogni uomo. Con quale venerazione l’apostolo di Cristo deve
pronunciare questa parola: uomo!”. Prende così le mosse il pontificato che ha cambiato la storia del XX secolo. Esattamente
42 anni fa Karol Wojtyla sale sul Soglio di Pietro. E fu subito chiaro che
Giovanni Paolo II sarebbe stato un Papa inconsueto. Inevitabilmente insolito rispetto ai suoi predecessori. E non soltanto, come un po’ tutti all’inizio pensavano, perché era il
primo Papa non italiano dopo quattro secoli e mezzo. Il che, già di per sé, avrebbe comportato ovviamente dei cambiamenti sia sul piano istituzionale sia sul piano pastorale e culturale. Ma sarebbe stato
un Papa diverso, soprattutto a motivo delle sue stesse origini, delle sue esperienze, della sua formazione umana e cristiana.
Karol Wojtyla aveva vissuto in prima persona la Seconda guerra mondiale, e i due totalitarismi che ne avevano rappresentato le maggiori ideologie. E, in qualche modo, aveva vissuto da vicino anche la mostruosa vicenda della Shoah; tanti suoi amici e compagni di scuola erano scomparsi nei campi di sterminio nazisti. Naturale, perciò, che Giovanni Paolo II fosse portatore di un’altra visione del mondo e della storia. Così come fosse portatore di una concezione, altrettanto speciale, circa il modo di intendere il messaggio di Cristo, di viverlo, e di testimoniarlo nella quotidianità della vita.
Era nato in una Polonia libera, Karol. Aveva solo nove anni quando aveva perduto la mamma (più tardi la ricorderà con una bellissima poesia: “Sulla tua bianca tomba/ sbocciano i fiori bianchi della vita./ Oh quanti anni sono già spariti/ senza di te…”); ma il padre, un ex ufficiale in pensione, era stato straordinario nel “supplire” a quella assenza. Poi, la scuola. Il teatro, grande passione, grande futuro. L’università. E, improvvisamente, il buio. Un buio spaventoso, totale. Quel giorno, 1° settembre del 1939, “non si cancellerà più dalla mia memoria”, aveva confessato. Karol era fuggito con il padre dai nazisti che avanzavano a Ovest; ma, dopo aver percorso a piedi duecento chilometri, era stato costretto a invertire il cammino, perché a Est le truppe sovietiche stavano entrando in Polonia.
Il giovane Wojtyla aveva vissuto sulla sua pelle il famigerato patto Molotov-Ribbentrop, Germania e Urss ancora insieme, per spartirsi quel Paese. Karol perciò era tornato a Cracovia. Ma, chiusa l’università, ridotto il teatro alla clandestinità, aveva dovuto cercarsi un lavoro, in una cava di marmo, per non finire in un campo di concentramento. Anche se aveva rischiato di andarci lo stesso, il giorno in cui il governatore generale aveva ordinato una retata in tutta la città. E ancora una tragedia, ancora un lutto personale, la morte del padre. E da qui, forse, un’ulteriore spinta alla decisione che Karol 24 comunque aveva già nel cuore, quella di farsi prete.
Era finita la guerra, e lui,
ricevuta l’ordinazione sacerdotale, era andato a Roma per un paio di anni a completare gli studi. E, quando era tornato, aveva trovato la sua patria soggiogata a un altro regime. Erano cambiate le divise, ma non l’ideologia persecutoria.
E lui portò questa convinzione fino al Soglio di Pietro, come fu evidente fin dall’intronizzazione. La storia si era messa in moto e il risultato è stato,
11 anni dopo, la fine della guerra fredde con
il crollo del muro di Berlino.