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2005-2025: vent’anni senza Karol Wojtyla

2005-2025: un ventennio senza Karol Wojtyla. Ricorre nell’anno appena iniziato il ventesimo anniversario della scomparsa del Papa venuto dall’est. Nessuno si era accorto che Giovanni Paolo II già nel 1991 fosse stato colpito dal morbo di Parkinson. O, almeno, il tremore che accusava ad alcune dita della mano sinistra era un sintomo tipico di quella malattia. E del resto, all’inizio, anche lui non aveva dato molta importanza alla cosa, solo più tardi ne avrebbe parlato al suo medico. Ma poi c’era stata l’operazione per il tumore all’intestino. Quindi, oltre all’insorgenza di problemi osteoarticolari, cominciavano ad avvertirsi le conseguenze di quei due colpi di pistola sparati da Ali Ağca. E intanto, il Parkinson aveva ripreso, ma stavolta quasi con ferocia, a devastare quel povero corpo. Perdite di equilibrio, cadute, difficoltà a camminare, prima il bastone, poi la sedia a rotelle, un volto che diventava sempre meno espressivo, non rideva più, infine la tracheotomia, che gli permetteva di respirare, questo sì, ma lui non riusciva più a parlare. Un martirio, un autentico martirio. E tuttavia, Karol Wojtyla aveva continuato la sua missione. I viaggi internazionali, lunghissimi, faticosissimi, le udienze generali, le visite alle parrocchie romane, gli incontri quotidiani con personaggi o gruppi venuti da tutto il mondo. Ma come faceva a sopportare quei dolori spesso terribili?

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Foto: Vatican news

Karol Wojtyla aveva imparato a dare spazio alla sofferenza. E perciò a convivere con il dolore, con la malattia. Senza neppure nascondere i suoi mali, come aveva fatto all’Angelus di quel luglio del 1992, confidando ai fedeli che la sera si sarebbe ricoverato al Gemelli per accertamenti. E ne parlava non certo per esibizionismo. Ma sia per dimostrare il valore salvifico, il posto che ha la sofferenza nella vita di ogni giorno. Sa per rivendicare il valore e il ruolo di ogni persona, anche malata o minorata, nella società. C’erano giornali che criticavano impietosamente quella “ostensione” (come la chiamavano) della sofferenza, e gli suggerivano di diradare le apparizioni pubbliche. Il Papa si rendeva perfettamente conto del suo stato di salute, ma che avrebbe dovuto fare, chiudersi in Vaticano? Una volta, a padre Roberto Tucci, organizzatore dei viaggi papali, aveva detto: “Crede che non mi veda in televisione come sto combinato. Ma se nascondessi la mia infermità, non finirei anche per nascondere il mio ruolo di pastore, per separarmi dalla gente?”. Prima ancora di compiere gli ottant’anni, aveva chiesto agli esperti se fosse stato il caso, in quelle condizioni, di dare le dimissioni. E, dopo la risposta negativa (comunque aveva predisposto ugualmente tutto, nel caso ce ne fosse stato bisogno), decise di fronte a Dio di proseguire la sua missione, almeno fino a quando ne avrebbe avuto le forze. Così, aveva continuato ad assolvere i suoi impegni, senza mai far pesare la sua malattia, le sue sofferenze, sulla Curia, sulla Chiesa universale. Resistette fin quando poté. Per la prima volta, non ce la fece a partecipare alla Via Crucis al Colosseo. A Pasqua, si affacciò alla finestra dello studio, ma non riuscì a pronunciare la benedizione. Sentendo avvicinarsi la fine, volle congedarsi da tutti i suoi collaboratori, e anche da Francesco, l’uomo che curava la pulizia nell’appartamento pontificio.

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Foto: Vatican news

Il 2 aprile del 2005 era un sabato. Wojtyla sussurrò a suor Tobiana: “Lasciatemi andare dal Signore“. Poi, il suo cuore si fermò. E, già qui, c’era una prima eredità che Giovanni Paolo II lasciava: da uomo, prima che da Papa. E cioè, lui che era stato acclamato come “John Paul Superstar”, come “il Papa globetrotter”, vigoroso, atletico, osannato in tutto il mondo. E ora invece era un povero vecchio impedito di camminare, impedito di parlare, ebbene, voleva ricordare– a una società ossessionata dal vitalismo, dall’efficientismo, dalla sublimazione del corpo – come si possano vivere le diverse stagioni della vita con dignità, con serenità. E, soprattutto, come si possa affrontare con coraggio anche una prova così sconvolgente, così “definitiva”, come la morte. Quel 2 aprile era la vigilia della festività della Divina Misericordia. Difficile pensare che fosse stata solo una “coincidenza”. Era stato lui, Giovanni Paolo II, a riscoprire e rilanciare quello che è uno degli attributi centrali di Dio e del suo amore senza confini. Era stato lui, a istituire quella festa. Era stato lui, a dedicare alla Misericordia il suo miglior documento, la lettera apostolica “Dives in Misericordia”. E dove c’era, in controluce, il senso profondo della sua vita e del suo progetto di rinnovamento della Chiesa. Molto in sintesi, la Dives in Misericordia era un invito alla Chiesa molto diretto, molto esigente. Un invito, non solo a professare la misericordia di Dio, non solo a immetterla nella vita dei fedeli. Ma anche, se la Chiesa vuole essere veramente specchio fedele di Cristo, tornare a mostrarsi più misericordiosa, più pronta al perdono: “Non le è lecito, a nessun patto, di ripiegarsi su se stessa. La ragione del suo essere è, infatti, quella di rivelare Dio“.

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didascalia: GIOVANNI PAOLO II PAPA KAROL WOJTYLA

Ecco un altro dei contenuti più significativi dell’eredità lasciata da Giovanni Paolo II. E cioè, la testimonianza che, con la sua vita, ha dato della fede in cui credeva. Come dire che la sua vita diventò essa stessa testimonianza. Proclamava la presenza di Dio nella storia umana. E, nello stesso tempo, vivendo visibilmente questa fede, la rendeva parte integrante dell’esistenza umana. Si potrebbe dire, senza trionfalismi, che Karol Wojtyla sia stato il Papa dell’Incarnazione, ossia il Papa che ci ha fatto vedere il volto umano di Dio. Con la sua fede, con la sua missione, con il suo impegno per la difesa di ogni persona, e ancora, con la santità che ha segnato costantemente la sua esistenza, con il coraggio e la serenità con cui aveva affrontato tante prove, l’attentato, le malattie e infine la morte, Karol Wojtyla ci ha mostrato come fare una nuova esperienza di Dio, il Dio dell’amore, della misericordia, della tolleranza. Da qui, la testimonianza che Karol Wojtyla ha dato di una nuova spiritualità, ossia di un nuovo modo di intendere la vita cristiana. Che è l’incontro con “qualcuno” che ti cambia completamente l’esistenza. E, dunque, non è solo dottrina, non è soltanto un insieme di leggi, tanto meno un moralismo fine a se stesso, solo divieti, solo pesi che sono oltretutto inutili. E, dalla nuova prospettiva spirituale, discendeva conseguentemente quello che si potrebbe definire un nuovo “stile di vita” per i seguaci del Vangelo. E cioè, un nuovo modo di essere cristiani oggi, di come vivere la fede nell’esperienza di tutti i giorni. Una fede vissuta come scelta personale, matura, e continuamente rinnovata, rafforzata, e soprattutto testimoniata. Testimoniata apertamente, con convinzione, senza complessi e paure. E, proprio per questo, capace di trasformare la realtà umana e sociale, di generare speranza. Insomma, la fede come capacità di esprimere la radicalità evangelica e la stessa santità, in quanto misura “alta” della vita, nelle situazioni più normali, più comuni.

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credito: CARLO LANNUTTI

“Sul quadrante della storia scocca un’ora importante. Inizia in questo momento l’anno 2000. Buon anno a tutti voi, uomini e donne di ogni parte della Terra”. Con queste parole, poco dopo la mezzanotte del 1° gennaio 2000, San Giovanni Paolo II salutava allora il nuovo millennio, concludendo quel momento con l’auspicio per “un anno ricco di pace”. Quella di 25 anni fa è una notte che lega la storia del Giubileo a quella della tv. Su Rai1 Carlo Conti sta conducendo la trasmissione di Capodanno, pochi secondi dopo la mezzanotte, nella festa generale dell’Italia che saluta il nuovo millennio, la linea passa a San Giovanni Paolo II che si affaccia in tv per salutare il nuovo millennio. “Fu emozionante per due motivi – racconta lo stesso Conti –. Il primo era l’arrivo del nuovo millennio anche perché era il mio primo ‘Ultimo dell’anno’ in tv. Ricordo che tra gli altri c’era anche Gigi Proietti. Sentivo l’emozione di portare gli italiani nel nuovo millennio. Ma un’emozione ancor più grande fu passare la linea al Santo Padre per l’augurio. Fu un collegamento storico“. Il saluto in tv del Papa è una delle immagini del Giubileo del 2000, il Giubileo di San Giovanni Paolo II. L’immagine di Papa Wojtyla, il suo sguardo, all’apertura della Porta Santa, è la sintesi della buona riuscita della missione di quel Papa che, dopo essersi salvato da un attentato e nonostante uno stato di salute non semplice, era riuscito a traghettare la Chiesa nel nuovo millennio. Tra le istantanee dell’ultimo Giubileo ordinario, prima di quello indetto da Papa Francesco, se ne ricordano due. La prima a marzo il viaggio in Terra Santa quando si reca al Muro del Pianto e lascia, in una fessura del muro una preghiera. Un mea culpa storico.

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Foto © Samantha Zucchi/Insidefoto/Image

“Siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli – recita la preghiera -, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza”. Pochi mesi dopo, ad agosto, il Giubileo dei Giovani con circa 2 milioni di ragazzi, con “le sentinelle del mattino” all’alba del nuovo millennio, l’incontro tra il Papa e i Papaboys, una vera e propria comunità formata nel corso del tempo. Chiudendo la veglia di preghiera a Tor Vergata il Pontefice ricorda “un proverbio polacco che dice: ‘Kto z kim przestaje, takim si? staje’. Vuol dire: se vivi con i giovani, dovrai diventare anche tu giovane. Così ritorno ringiovanito. E saluto ancora una volta tutti voi, specialmente quelli che sono più indietro, in ombra, e non vedono niente. Ma se non hanno potuto vedere, certamente hanno potuto sentire questo ‘chiasso’. Questo ‘chiasso’ ha colpito Roma e Roma non lo dimenticherà mai!“. Perdono, giovani, curiosità e gioia per il nuovo millennio, importanti appelli ai potenti del mondo ma due le questioni al centro del Giubileo di Wojtyla: l’abolizione della pena di morte e la cancellazione del debito estero dei Paesi poveri. Oggi, 25 anni dopo, tocca a Papa Francesco, 25 anni dopo, chiedere al mondo la stessa cosa. 

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