Il racconto-testimonianza a Interris.it è di Gianfranco Svidercoschi, decano dei vaticanisti, amico e collaboratore di San Giovanni Paolo II, ex vicedirettore dell’Osservatore Romano. “Si capì subito che il mondo comunista non avrebbe sopportato a lungo quella ‘mina vagante’. Troppo pericolosa, Solidarność!- spiega Svidercoschi-.Troppo destabilizzante! La sua stessa esistenza era un attacco al cuore del marxismo, della sua ideologia. E infatti, già
nell’autunno del 1980 cominciarono a circolare voci minacciose. I servizi segreti occidentali parlavano addirittura di una possibile invasione della Polonia, da parte delle truppe dell’Armata Rossa, qualora si fosse acuito lo scontro tra il governo di Varsavia e Solidarność, guidata da Wałęsa”.
Messaggio all’impero del male
Giovanni Paolo II sentì il dovere di intervenire, in difesa della nazione polacca. Ma anche, più in generale, in difesa della libertà dei popoli di decidere del proprio destino. Così, il 16 dicembre, compì un gesto incredibile quanto coraggioso. Scrisse a Brèžnev, presidente dell’Urss. Gli manifestò “la preoccupazione dell’Europa e del mondo per la tensione creata dagli eventi interni che si sono verificati in Polonia”. Il tono della lettera era molto formale e lo stile quello usato in diplomazia. Ma c’era una durezza di fondo che non poteva non colpire. A cominciare da quell’esplicito riferimento all’”aggressione” hitleriana del 1939. Implicitamente Giovanni Paolo II voleva ricordare come la Polonia, nello stesso periodo, fosse stata invasa a Est dall’esercito sovietico. Secondo riferimento, quello alla tragedia della Polonia, e al sacrificio di tanti suoi figli, durante la Seconda guerra mondiale. E poi, il richiamo all’Atto finale di Helsinki, alla responsabilità di ogni nazione nei propri affari “interni”. E alla fine: “Confido che voglia fare tutto ciò che è in suo potere per dissipare l’attuale tensione”.
Senza risposta
Quella lettera non ebbe mai una risposta. A Mosca avevano deciso: Solidarność doveva sparire; e questo non si poteva certo anticiparlo al Papa polacco. Ma se non ci fu nessuna risposta scritta, qualcun altro si incaricò di “rispondere”, seppure in altro modo. “Non per conto di Brèžnev, questo no- evidenzia Svidercoschi.-Ma di ambienti che, passando attraverso una lunga serie di scatole cinesi, erano collegabili ai servizi segreti sovietici. Era il 13 maggio del 1981. Piazza san Pietro, cuore della cristianità. Quasi non si sentirono quei due colpi sparati contro Karol Wojtyla”.
L’attentato
Era mercoledì, c’era l’udienza generale. Giovanni Paolo II sulla papamobile stava facendo il giro della piazza per salutare i fedeli.
Aveva appena preso in braccio una bambina bionda, l’aveva alzata
in alto come per farla vedere a tutti, e l’aveva restituita ai genitori.
Proprio in quel momento, ma coperto dal rumore della gente, ci fu
il primo colpo, poi il secondo, e il Papa cominciò a piegarsi con una
smorfia di dolore, fino a scivolare tra le braccia del suo segretario,
mons. Dziwisz. La jeep partì a grande velocità verso i servizi sanitari
all’interno del Vaticano, quindi al Gemelli.
La situazione era decisamente grave. Wojtyla era in pericolo di
vita, al punto che gli venne amministrata l’unzione degli infermi.
Ma, benché lunghissimo e complicatissimo, l’intervento chirurgico
riuscì perfettamente. Però non era ancora finita. Ci fu un seguito
ugualmente drammatico, a causa di una infezione diagnosticata a
fatica, per cui si rese necessario un secondo intervento. E poi, finalmente, Giovanni Paolo II poté fare ritorno a casa.
In quei giorni, in ospedale, aveva più volte riflettuto su quella
singolare coincidenza, fra il 13 maggio dell’attentato e il 13 maggio
del 1917, quando c’era stata la prima apparizione della Vergine a
Fatima; e finì per convincersi che fosse stata la Madonna a salvarlo.
E ne concluse: «Una mano ha sparato e un’altra mano ha guidato la
pallottola». Per questo, volle che quella pallottola fosse incastonata
nella corona della statua della Vergine a Fatima.
E, quella «mano che ha sparato», il Papa due anni dopo ebbe
il coraggio di stringerla, quando andò a trovare a Rebibbia il suo
attentatore, Mehmet Ali Ağca. Un turco, appartenente a un gruppo
criminale, i “Lupi grigi”, e lui stesso autore di alcuni delitti, arrestato,
incarcerato, e misteriosamente (o non tanto) liberato. Dopo aver
sparato al Papa, aveva tentato di fuggire, ma era stato bloccato pri-
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ma da una suora e poi dalla polizia. Un killer professionista, senza
dubbio. Ma mandato da chi? Cadute, l’una dopo l’altra, le ipotesi di
una “pista bulgara” e di una “pista islamica”, restava inevitabilmente
il sospetto che l’ordine di uccidere fosse venuto, se non proprio dal
Cremlino, quantomeno dal KGB o da schegge impazzite dei servizi
segreti.
C’era da tener conto dello scenario di quel tempo. L’elezione di un
Papa polacco che aveva provocato enorme sconcerto tra i capi comunisti. Il suo primo ritorno in patria che aveva creato una atmosfera
di libertà in tutto l’Est. La nascita di Solidarność, che rappresentava
ogni giorno di più una insopportabile provocazione per il “sistema”.
E ancora, il fatto che stesse morendo il cardinale Wyszyński, primate
di Polonia, e fiero avversario del regime. Allora, messi insieme tutti
questi elementi, non si finisce sempre per tornare allo stesso punto
di partenza? Non si finisce sempre per risalire a Mosca e dintorni,
per capire chi volesse far fuori Karol Wojtyla, in quanto “grande
protettore” di Solidarność dal Vaticano?
Oltretutto, quando il Papa andò a trovarlo in carcere, sperando
invano che chiedesse perdono, Ali Ağca lo accolse con quella domanda che – senza che lui se ne rendesse conto – era estremamente
rivelatrice: «Ma perché lei non è morto? Io so di aver mirato come
dovevo…». Perché doveva? C’era qualcuno, evidentemente, che gli
aveva “commissionato” quell’assassinio; e lui aveva tirato fuori la sua
Browning calibro 9, per eseguire l’“incarico” per il quale era stato
profumatamente pagato.