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Monkey Island, i trent’anni del videogioco diventato un cult

Il titolo della Lucas Arts ha segnato un'epoca dei giochi virtuali. Un'avventura ironica, affascinante e divertente, per ricordarci che quello nel monitor in fondo "è solo un gioco"

C’era una volta lo Scumm e la buona vecchia interfaccia punta e clicca. Altro che 3D, iSense e 4K… C’è stato un tempo in cui qualche battuta ben piazzata, una bella storia, un pizzico di ironia e una buona dose di deduzione logica bastavano a fare un buon videogioco. Lontanissimo quel 1987, quando l’allora Lucas Arts creò lo Script Creation Utility for Maniac Mansion, lanciando il primo successo in avventura grafica della storia. Maniac Mansion, primo titolo di una saga. Più in generale, precursore di un’epopea destinata a raggiungere lo status di cult. In quegli anni, fino alla metà dei Novanta, l’intuizione della Lucas segnò il passaggio definitivo dai testi alla grafica, già azzardato con qualche esperimento di successo, come il primo titolo della saga King’s Quest, prodotto dalla Sierra. E migliorie saranno apportate anche in seguito, con il tentativo riuscito della Westwood di semplificare ulteriormente l’interfaccia con The legend of Kyrandia. E con la stessa Lucas che produrrà l’avventura Day of the tentacle, prima vera sliding door con la modernità.

Un colpo di genio

Ma il romanticismo del metodo Maniac Mansion non era tanto nelle sue potenzialità visive. O meglio, c’erano anche quelle, ma il bello del gioco era il ruolo attivo del giocatore e del suo cervello. Grafica a mezzo schermo orizzontale, con al di sotto una serie di verbi e un inventario di oggetti. Da combinare insieme per far progredire la storia. Niente “vite” né game over: il gioco finiva quando l’enigma era risolto. Semplice e geniale, tanto da stimolare la fantasia di sviluppatori come Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman, che presero il pacchetto delle avventure grafiche plasmandolo nel capolavoro del genere: The secret of Monkey Island, giusto trent’anni fa. Sembra passato un secolo, buttando un occhio ai videogame del 2020. Eppure, ancora oggi c’è chi darebbe volentieri il suo i-phone pur di rivedere un titolo simile. Un mix di sarcasmo, pirati e ambientazioni da favola “nel profondo dei Caraibi”.

Il segreto di Monkey Island

Guybrush Threpwood, “temibile pirata”, protagonista del gioco con un nome che per i pirati veri “non è nemmeno un nome”. Primo step, di notte, sull’isola di Mêlée. Pirati che se ne stanno chiusi allo Scumm Bar (solo una delle innumerevoli citazioni, compreso un cameo di George Lucas, patron della casa di produzione) per paura del corsaro fantasma Le Chuck, terrore dei Caraibi che vede nel nuovo arrivato la sua possibile nemesi. Trama degna del duello Jack Sparrow-Davy Jones (e di citazioni e richiami reciproci sembrano essercene) ma in realtà solo l’ossatura di un’avventura che, innanzitutto, mirava a divertire. Gli stessi personaggi, di tanto in tanto, si rivolgevano al giocatore ricordandogli come, in fondo, “fosse solo un gioco”. Il tutto condito da personaggi iconici, molti dei quali ricorrenti in quella che sarebbe divenuta una saga.

Scherziamoci su

Azioni da combinare agli oggetti, dialoghi esilaranti, duelli di spada trasformati in duelli verbali, con “insulti” che insulti non erano. E con un protagonista con l’ambizione di diventare pirata senza nessuna particolare abilità, se non quella di “poter trattenere il fiato per 10 minuti”. Eppure l’unico in grado di risolvere il mistero di Monkey Island. Annessa, un’immancabile storia d’amore naturalmente. Con una “donzella” ben più coraggiosa dei bucanieri. Tutti gli ingredienti di un’avventura affascinante e divertente, eco nostalgica di un’epoca in cui i videogiochi erano solo un passatempo. E, come saprà chi ha cercato invano il “disco 22”, un modo per scherzare con le nuove tecnologie.

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