Vivere 18 anni in un aeroporto, o meglio, in un terminal di un aeroporto? Qualcuno lo ha fatto, suo malgrado, presso lo scalo parigino “Charles de Gaulle”, divenendo ben presto l'emblema di un caso internazionale, nel quale l'impasse burocratica aveva di fatto confinato un uomo (al secolo l'iraniano Mehran Karimi Nasseri) dal 1988 al 2006 presso la sala di attesa di un terminal aeroportuale, in attesa di una partenza che, aereo dopo aereo, non sarebbe alla fine mai arrivata veramente. Una vicenda che ha ispirato il famoso film di Steven Spielberg The terminal, con protagonista Tom Hanks ma che, ancora una volta, pare sia tornata a verificarsi, incastrando un'altra persona fra le maglie complesse dei sistemi burocratici, stavolta a Kuala Lumpur in Malesia: un uomo, Hassan al-Kontar, cittadino siriano, è da giorni confinato nello scalo della capitale malese senza grandi possibilità di potersi muovere.
Vita nell'incertezza
Nel suo Paese, la Siria, l'uomo ha una sorta di veto: non può rientrare perché, dopo essere sfuggito all'obbligo del servizio militare (in quanto contrario alla guerra in corso), potrebbe essere tratto in arresto. Ma non può nemmeno volare negli Emirati Arabi, Paese in cui ha un permesso di soggiorno sì ma scaduto. Uno stallo che dura ormai da oltre un mese e che, pian piano, ha iniziato ad attirare l'attenzione dei media di tutto il mondo, consapevoli di potersi trovare di fronte a un nuovo caso Nasseri. E in effetti, Hassan vive esattamente come descritto nelle foto scattate al vecchio iraniano dello Charles de Gaulle e nello stesso film con Tom Hanks. Vero è che, in quella pellicola, la vita del protagonista viene parecchio romanzato, rendendolo una figura quasi simbiotica, in un certo senso, con la realtà aeroportuale. Ma in questo caso no: Hassan vuole andarsene al più presto perché lì dentro non vuole più starci.
Situazione di stallo
Costretto a lavarsi con mezzi di fortuna, a mangiare con pasti non regolari e a lavare i suoi panni nei bagni del terminal, dopo la mezzanotte, il siriano ha più volte definito “limbo” l'avventura che sta attraversando. Lui, dal canto suo, ha le idee chiare solo su un punto: “Non so cosa dire o cosa fare – ha detto al 'The Guardian' -. Ho bisogno di una soluzione, ho bisogno di un posto sicuro dove posso restare legalmente, con un lavoro. La Siria è fuori discussione, anche se resterò qui per sempre. Non voglio far parte del combattimento, non voglio uccidere nessuno. Non voglio nemmeno essere ucciso. Non è la mia guerra”. Da Kuala Lumpur ha cercato anche di andar via, tentando di raggiungere Ecuador e Cambogia, da dove è stato puntualmente rispedito indietro: “Non è solo il mio problema. E' il problema di centinaia di ragazzi siriani che si sentono odiati, rifiutati, indesiderati, deboli, soli”.