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Fake news, gli italiani non sanno riconoscerle

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La maggior parte degli italiani non sa riconoscere una fake news. E' l'allarme, da non sottovalutare, che lancia il rapporto “Infosfera” realizzato dall’Università di Suor Orsola Benincasa. Il documento, lungo ben 158 pagine, rivela, infatti, come per l’87% degli utenti web del Bel Paese i social network non offrano più garanzie di apprendimento credibile delle notizie e come l’82% degli italiani sia incapace di riconoscere una notizia priva di fondamento su Internet.

Il rapporto

La ricerca completa, giunta alla sua seconda edizione, è pubblicata integralmente sul sito web dell'Ateneo napoletano. E' stata realizzata in collaborazione con i ricercatori dell'Associazione Italiana della Comunicazione pubblica e istituzionale, del Centro Studi Democrazie Digitali e della Fondazione Italiani – Organismo di Ricerca coinvolgendo un campione d'indagine superiore ai 1500 cittadini italiani, quindi con un errore statistico minimo che si attesta intorno al 2,5%. La ricerca Infosfera, presentata al Suor Orsola alla presenza del Commissario AgCom, Mario Morcellini e dell'assessore regionale alla Formazione, Chiara Marciani, raccoglie i dati sulla percezione del sistema mediatico, con particolare attenzione al livello di credibilità, fiducia ed influenza delle fonti di informazione. Viene così disegnato il nuovo assetto dello spazio pubblico prodotto dai fenomeni della mediatizzazione, della disintermediazione, dell'information overload, della polarizzazione e della sottrazione di tempo e di attenzione. 

Il dominio dell'attenzione

Tra i punti più interessanti, quello dedicato al “dominio dell'attenzione”, che per sommi capi espone alcune delle motivazioni per cui gli italiani sono in balia dei social network. “L’informazione – si legge nel rapporto – consuma attenzione. Gli italiani sono esposti per un periodo sempre maggiore all’informazione, il 42,37% è connesso minimo 4 ore al giorno, la generazione Z, per il 73,85%, si connette 4 ore al giorno o più. L'abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione che consuma l’attenzione. Non solo. Quanto più le informazioni ci pervengono attraverso algoritmi e automazioni di routine, attraverso impulsi mediati, tanto più la nostra biologica ricezione alterandosi impoverisce, appassisce”. E prosegue: “In un contesto nel quale l’informazione è sovrabbondante si assiste a una concrescente scarsità di attenzione e alla riduzione del linguaggio a uno strumento per la competizione della stessa. E la scarsità di attenzione ne aumenta il valore per chi riesce a produrla e rivenderla. In un periodo di inflazione di informazione, l’attenzione non è più soltanto scarsa ma diventa rarissima e costosissima”.

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