Curiosità

Anche Hollywood fa i conti con il Coronavirus

L’emergenza Coronavirus è esplosa negli Stati Uniti dove il numero dei decessi è salito a 5.119 mentre i casi di contagio accertati nel paese sono 216.515 secondo i dati riportati dalle statistiche della John Hopkins University. E gli Studios di Hollywood devono chiudere per la seconda volta dopo la prima serrata a causa delle spagnola al termine del primo conflitto mondiale.

Hollywood chiude

Hollywood si ferma, ma non è la prima volta. Era il mese di ottobre del 1918, la prima guerra mondiale stava per terminare e la nascente industria del cinema muto stava per esplodere con la distribuzione delle immagini in oltre 20mila teatri d’America, quando l’influenza spagnola bloccò ogni attività. Secondo le previsioni quello delle produzioni cinematografiche, sarebbe presto diventato il quinto settore degli Stati Uniti dopo agricoltura, carbone, acciaio e trasporti. La grande influenza, che avrebbe provocato complessivamente circa 50 milioni di vittime in tutto il mondo, costrinse studi e teatri a fare i conti con i maggiori rischi per il proprio sostentamento e la vita dei propri dipendenti.

Hollywood e la febbre spagnola

Per mesi, gli studi di Los Angeles e le catene di teatri pensarono che la cosiddetta “spagnola” fosse solo un problema della costa orientale. Ma in realtà l’influenza si stava già spostando verso ovest. All’inizio di ottobre, come ricostruito dal The Hollywood Reporter, la National Association of the Motion Picture Industry, l’organizzazione americana dei produttori, che perdeva denaro per il semplice fatto che negli Usa i teatri erano semivuoti, annuncio’ un embargo per l’uscita di nuove pellicole, per un mese, precisamente a partire dal 14 ottobre. Fu l’inizio di uno stop che si trovava a fare i conti anche con una buona dose di sottovalutazione del pericolo. Sid Grauman, leggendario impresario teatrale, ricordato per avere creato a Hollywood il Chinese Theatre e l’Egyptian Theatre, al Los Angeles Times dichiarò di avere “parecchi film a portata di mano, che nessuna parola era arrivata da nessuno per chiudere e che non aveva sentito un solo starnuto dai suoi spettatori”. L’11 ottobre fu il municipio di Los Angeles a ordinare la chiusura di tutti i teatri, le case cinematografiche, sale e luoghi di divertimento fino a nuovo avviso. In tutto furono chiuse 83 sale cinematografiche che accoglievano diverse migliaia di spettatori a settimana.

La produzione e le stars

La pandemia ovviamente arrivò a colpire direttamente anche le produzioni. Da New York giunse la notizia che il famoso attore Bryant Washburn aveva contagiato la co-protagonista Anna Q. Nilsson durante le riprese di “Venus in the East”. Il 16 ottobre, Frank Garbutt, uno dei manager della Lasky Photoplay Corp, annunciò che tre film in produzione sarebbero stati affrettati e che la maggior parte dello studio sarebbe stato chiuso per un mese. Altri seguirono l’esempio. Mentre gli studi più piccoli si rendevano conto che anche l’interruzione di un solo mese avrebbe messo a rischio la loro sopravvivenza. Star come Constance e Norma Talmadge accettarono di rinunciare ai loro stipendi in modo che i dipendenti potessero continuare a lavorare. Ci furono vittime illustri. A novembre furono colpite dall’influenza anche le sorelle attrici Lillian e Dorothy Gish, poi Olive Thomas e la sceneggiatrice Frances Marion. Anche un giovane Walt Disney contrasse la malattia e sopravvisse. Soffrì d’influenza la stella canadese Mary Pickford. A dicembre 1918, il Los Angeles Times parlò di perdite per un milione di dollari a settimana (circa 17 milioni di oggi) durante le 7 settimane di chiusura, annunciando una riapertura. La “stagione senza divertimento” è finita e il mondo del cinema ha preparato un “entusiasmante benvenuto”, si annunciava. La pandemia rallentò davvero a inizio primavera 1919. Le perdite subite per l’influenza spagnola furono mitigate grazie al pubblico desideroso di intrattenimento che tornò a riempire le sale, e dall’inizio di un periodo migliore per l’economia, dalla corsa al denaro degli anni ’20.

Gianpaolo Plini

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