Confermata in Cassazione la condanna a 30 anni di reclusione per Veronica Panarello, la giovane mamma accusata di aver ucciso suo figlio, Loris Stival, e di averne occultato il cadavere. Una sentenza che arriva a cinque anni esatti dalla morte del piccolo, avvenuta a Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa, e che aveva sconvolto il Paese intero. La decisione dei giudici è arrivata dopo diverse ore di camera di consiglio, al termine delle quali la Suprema Corte, presieduta da Adriano Iasillo, ha giudicato inammissibile il ricorso presentato dall'imputata, accogliendo la richiesta del procuratore generale: “La Giustizia oggi – ha commentato il legale di Andrea Stival, papà di Loris – mette un punto definitivo su questa tragica e drammatica vicenda: è stata la madre a uccidere Loris. Adesso bisogna pensare al futuro”.
La condanna
Veronica Panarello, a seguito della sentenza emessa dalla corte d'Assise d'appello di Catania nell'estate del 2018, ora confermata in Cassazione, è detenuta nel carcere di Torino, dove sta scontando la sua pena. Secondo il pg della Suprema Corte, la donna agì in piene facoltà mentali (capace di intendere e di volere) nel momento in cui avvenne l'omicidio del figlio, confermando quanto stabilito con la sentenza d'appello dei giudici di Catania, i quali stabilirono la non sussistenza di un nesso fra i tratti “istrionici e narcisistici” manifestatisi nella personalità dell'imputata e la “condotta criminosa”, sia durante il delitto che nelle ore successive, durante i colloqui con gli inquirenti che cercavano il piccolo Loris.
La vicenda
Il corpo del bambino venne ritrovato il 29 novembre 2014 in un canalone nei pressi di Santa Croce Camerina, nel ragusano, già privo di vita per via del soffocamento attribuito a delle fascette di plastica. A denunciare la sua scomparsa era stata proprio sua madre che, dichiarandosi sempre innocente, da quel momento cambierà spesso versione nel descrivere le circostanze che hanno portato alla morte del bambino. Secondo il legale della difesa, Valeria Crispi, il processo si chiude “senza un movente per il delitto” e “con una sentenza nei confronti di una donna la cui stabilità mentale non è, a nostro modo di vedere, tale da poter consentire la condanna”.