Una camera di consiglio durata 15 ore quella della Corte d’Assise d’appello di Brescia. Un’attesa infinita al termine della quale, proprio allo scoccare della mezzanotte e mezza, è arrivata la sentenza: il verdetto dei giudici ricalca quello del primo grado e l’ergastolo per il muratore 47enne, accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio, è confermato. Il verdetto, emesso dopo un consulto iniziato alle 9.30 del mattino, è stato letto dal presidente della Corte, Enrico Fischetti.
L’omicidio di Yara
Una vicenda, quella della piccola Yara, che ha sconvolto l’opinione pubblica italiana, fin da quel freddo 26 febbraio del 2011, quando il corpo senza vita della tredicenne venne ritrovato privo di vita nelle campagne della provincia di Bergamo. La giovanissima ginnasta era scomparsa il 26 novembre precedente, mentre tornava dalla palestra dove svolgeva i suoi quotidiani allenamenti: tre mesi di paura, angoscia e apprensione per la famiglia di Yara che, in breve, si trasformano in un incubo. Dal fermo del marocchino Mohamed Fekir, avvenuto il 5 dicembre 2010 per presunte connessioni con il delitto ma con successiva archiviazione per la sua totale estraneità ai fatti, fino al ritrovamento del corpo, massacrato a colpi di coltello e abbandonato, ancora in vita, al gelo della notte lombarda, in un campo di Chignolo d’Isola, nei pressi di Brembate.
Le tappe dell’indagine
Da allora, inizia un’odissea per la famiglia Gambirasio che, per sette anni, dovrà battersi per capire chi e perché abbia ucciso la piccola Yara. Il 15 giugno del 2011, nel corso di un’analisi di laboratorio effettuata sui leggins e gli slip indossati dalla ragazza al momento del brutale omicidio, gli inquirenti riescono a distinguere e a isolare una traccia di dna (l’unica fra quelle rinvenute a non essere suscettibile di contaminazione casuale) che, successivamente, si rivelerà appartenere a un individuo di sesso maschile (identificato come Ignoto 1). Quello stesso filamento verrà usato nei mesi successivi, attraverso infinite comparazioni con persone residenti nel bergamasco, come traccia principale per stabilire l’identità dell’assassino della tredicenne. Un procedimento protrattosi fino al 16 giugno 2014 quando, al termine dell’ennesima analisi, il muratore Massimo Bossetti viene tratto in arresto in quanto, secondo gli analisti, il suo dna corrisponde con quello individuato sul corpo di Yara. Le altre piste fin lì esaminate si chiudono e le indagini si concentrano sul 44enne di Mapello.
La prima condanna per Bossetti
Le udienze successive nei confronti di Bossetti, unico indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, porteranno a una condanna in primo grado all’ergastolo (emanata l’1 luglio 2016), al termine di un processo che, nel corso di un anno, vedrà la testimonianza di decine di persone. Per l’accusa la prova del dna è granitica, “ineccepibile”, mentre la linea difensiva dei legali del muratore si concentra proprio sulla confutazione di tale ipotesi con la richiesta, avanzata a più riprese, della ripetizione del test. Il muratore, sposato e padre di tre figli, continua a professarsi innocente, respingendo ogni accusa e dichiarandosi totalmente estraneo alla morte della tredicenne. Una tesi che Bossetti sosterrà fino all’udienza odierna (riguardante il pronunciamento della Corte d’Assise d’appello di Brescia) ripetendo che Yara “poteva essere sua figlia” e che “neanche un animale avrebbe usato tanta crudeltà”, la stessa che, però, la sentenza in primo grado gli aveva contestato come aggravante. Nel corso dei trenta minuti di dichiarazioni spontanee, con ben due richiami da parte del presidente della Corte, Bossetti ha sostenuto di essere vittima “più grave errore giudiziario di questo secolo”.