Bernardo Provenzano, successore di Totò Riina alla guida di Cosa Nostra, super boss del clan dei Corleonesi, è morto a 83 anni. Era stato catturato l’11 aprile 2006 dopo 43 anni di latitanza in una masseria situata a pochi chilometri dal suo paese natale e dall’abitazione dei familiari.
Il declino del vecchio padrino comincia il 12 maggio del 2012, quando le videocamere del supercarcere di Parma lo riprendono, nella sua cella, con un sacchetto in testa. Si tratta di uno dei primi segnali della malattia neurodegenerativa da cui Provnzano non si riprenderà mai. E una “prova” che il capomafia non è più quello d’un tempo è anche l’audio dell’interrogatorio che, dopo qualche giorno, gli allora pm Antonio Ingroia e Ignazio De Francisci vanno a fargli in carcere per “sondare” eventuali intenzioni di collaborazione con la giustizia. Parole sconnesse e difficoltà a rispondere. Provenzano farfuglia e confonde presente e passato. Per alcuni finge, per altri manifesta sintomi di una patologia che galoppa.
Poi c’è la caduta in carcere, a Parma, a dicembre del 2012. Il padrino riporta un ematoma al cervello, entra in coma e viene operato. Si salva ma non si riprende più. I figli Angelo e Francesco Paolo e la moglie Saveria Palazzolo lo incontrano. Lui è sempre al 41 bis: regime che non gli verrà mai tolto. Le immagini girate nella sala colloqui dell’istituto di pena lo riprendono con un berretto in testa. Fatica a tenere in mano la cornetta del citofono interno, stenta a riconoscere i familiari. Da allora lo visitano decine di medici. Consulenti di parte nominati dai legali che chiedono la revoca del regime carcerario duro, periti dei giudici. Imputato nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, viene dal gip dichiarato non in grado di partecipare coscientemente al processo. La sua posizione viene stralciata e periodicamente il boss è sottoposto a nuove visite. Una infinita serie di referti finiscono agli atti processuali.
Nel procedimento sulla trattativa, in cui ogni sei mesi il gip deve pronunciarsi sulle condizioni del boss, e nei procedimenti sollecitati dai legali di Provenzano, che chiedono, prima la revoca del carcere duro, poi, ai vari tribunali di sorveglianza competenti – da Parma nel frattempo è stato trasferito a Milano – la sospensione della pena. Consulenti e periti, salva qualche eccezione, sono netti: il capomafia è gravissimo. Le patologie di cui soffre sono “plurime e gravi di tipo invalidante”: dal grave decadimento cognitivo – il boss non parla più da anni – ai problemi dei movimenti involontari, all’ipertensione arteriosa, a una infezione cronica del fegato, oltre alle conseguenze degli interventi subiti per lo svuotamento dell’ematoma da trauma cranico,per l’asportazione della tiroide e per il tumore alla prostata.
I giudici gli nominano un curatore speciale: è il figlio Angelo, a cui verranno notificati gli atti vista l’incapacità mentale del padre. “Come può parlarsi di pericolosità e della possibilità che mandi messaggi all’esterno se non parla più?”, ripetono gli avvocati nelle istanze in cui sostengono che sono venuti meno i requisiti per l’applicazione del 41 bis. Ma la risposta è sempre la stessa. Anche se la Cassazione, tra gli ultimi a pronunciarsi, non parla più di pericolosità. E, nel confermare la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano che rigetta una delle richieste di differimento pena, parla della necessità di tutelare in modo adeguato il diritto alla salute del detenuto. In pratica, sostengono i giudici, in carcere Provenzano viene curato meglio, spostarlo altrove sarebbe più dannoso.