Angola batte Brasile. Non è il risultato di una partita di calcio, ma l'amaro conteggio del numero di focolai che mandano in fumo le foreste. Greenpeace lancia l'allarme: solo gli interventi tempestivi dei governi posso fermare i roghi. Dopo le fiamme che hanno divorato i boschi della Siberia e la foresta amazzonica nel cuore del Sud America, da circa una settimana torna a bruciare anche il polmone verde dell'Africa, la foresta pluviale che si estende tra Angola e Repubblica democratica del Congo. Sono stati registrati infatti oltre 10mila incendi soltanto dal 21 agosto in poi, ma la Nasa ne ha contati ben di più.
Cuore verde d'Africa
Un vero e proprio disastro ambientale distugge la seconda foresta pluviale più grande del mondo. Le immagini satellitari di “Aqua”, dell'Agenzia spaziale americana (Nasa) mostrano come il centro Africa sia ben più rovente del centro dell'America latina. Come già nel 2016, i focolai interessano quella porzione che si trova sul bacino del fiume Congo per estendersi in Angola, Zambia, Zimbawe e Madagascar. Nell'ex colonia belga sono stati contati 3.395, in quella ex portoghese 6.902. Le fiamme si sono sviluppate in quella fascia che separa la foresta dal deserto, la savana. La foresta pluviale africana è la 'casa' di migliaia di popolazioni indigene e di una grande biodiversità, inoltra svolge il fondamentale compito di ripulire l'atmosfere dal CO2 e restituire ossigeno. Si calcola che ogni immagazzini 115 miliardi tonnellate di andride carbonica. Quanta ne emettono gli Stati Uniti d'America in 12 anni.
Interessi economici
Ma questa fondamentale 'infermiera' del pianeta è gravemente a rischio per interessi economici. E non da oggi, perché da giugno 2019 la Nasa, dal suo osservatorio lassù in alto, ne ha contati 67mila. Contadini e allevatori appiccano il fuoco per deforestare, ripulire e il suolo e renderlo fertile per le coltivazioni e i pascoli. Le multinazionali vogliono questi terreni per scopi industriali. Secondo Grennpeace, sono finiti nelle mani delle corporations già 50 milioni di ettari di foresta pluviale. Il combinato disposto di industria e crisi climatica rende ancora più fragili e vulnerabili questi ecoosistemi, scrive la ong ambientalista, e come effetto collaterale ci priva di un'arma importante nella guerra contro il cambiamento climatico. Così Martina Borghi di Greenpeace Italia: “Invece di dare concessioni alle multinazionali che fanno profitto con la distruzione delle foreste, i diritti della gestione devono essere trasferiti alle popolazioni indigene, nel rispetto delle loro conoscenze tradizionali e degli standard ambientali”.