Non ha commesso il fatto”. Con questa formula i giudici della Corte di Assise di Appello di Milano assolvono Stefano Binda per l'omicidio di Lidia Macchi, avvenuto nel Varesotto 32 anni fa. In primo grado Binda era stato condannato all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Varese. Dunque i togati hanno respinto la richiesta del sostituto pg Gemma Gualdi, che aveva proposto di confermare la sentenza di carcere a vita inflitta in primo grado a Varese. Sentenza che è stata ribaltata. La prima conseguenza della decisione dei giudici è l’immediato ritorno in libertà di Binda. L'uomo lascerà il carcere di Busto Arsizio, dove era recluso dal 15 gennaio del 2016.
Le dichiarazioni spontanee e la requisitoria
“Non ho ucciso io Lidia Macchi, sono innocente, estraneo a tutta la vicenda”. Così Binda nelle sue dichiarazioni spontanee nel corso dell'udienza. E ancora: “In quel periodo ero a Pragelato – ha detto – e non ho mai spedito la lettera” contenente la poesia In morte di un’amica spedita il giorno del funerale e considerata dall’accusa la prova regina contro Binda. Tesi opposta quella sostenuta dal sostituto pg Gemma Gualdi: “Il poeta anonimo è certamente Stefano Binda” e “Binda ha scritto quella lettera perché ha vissuto i fatti descritti”. Per il rappresentante dell’accusa non c’è alcun dubbio sul fatto che il foglio su cui è scritta la poesia incriminata corrisponda a quello trovato a casa di Binda e dunque che Binda, che avrebbe fornito versioni differenti di quel giorno. Per questo motivo il pg ha chiesto la conferma della sentenza di primo grado della Corte d’assise di Varese, che aveva condannato il 51enne all’ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla violenza sessuale. Dura, e accolta dai giudici, la replica della difesa di Binda, sostenuta dai legali Patrizia Esposito e Sergio Martelli. “Vorremmo che questa immagine di Stefano Binda di un pazzo con la doppia personalità venisse cancellata”. Sulla sentenza di assoluzione si è pronunciata la sorella di Lidia Macchi, Stefania: “Adesso vogliamo sapere la verità su quello che è accaduto quella sera, è una cosa che chiunque vorrebbe sapere. Credo che servisse un minimo di approfondimento in più, forse è stata una sentenza affrettata”. Atteso il ricorso del legale di parte civile, l’avvocato Daniele Pizzi, contro l’assoluzione.
La dinamica e il contesto del delitto
Il caso di Lidia Macchi ha sconvolto l’Italia intera. Una ragazza di venti anni che studiava Giurisprudenza all’Università Statale di Milano. Il 7 Gennaio del 1987 il suo corpo senza vita fu ritrovato nel bosco di Cittiglio, in provincia di Varese: dopo l’autopsia fu constatato che la ragazza due giorni prima era stata violentata e poi uccisa con 29 coltellate. Il cold case viene riaperto nel 2015, le indagini del sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda portano all’arresto di Stefano Binda. Un ragazzo di Brebbia, aveva frequentato lo stesso liceo di Lidia Macchi ed entrambi erano legati al movimento di Comunione e Liberazione. Binda aveva una personalità fragile e all’epoca aveva cominciato a far uso saltuario di eroina. Lidia, una brava ragazza impegnata negli scout, aveva intenzione di aiutarlo ad uscire dal giro della droga tanto che all’epoca cominciò a documentarsi su libri che trattavano di tossicodipendenze. Tra i due si era instaurato un rapporto di forte amicizia, forse di attrazione reciproca, che però non era sfociato mai in nessun tipo di relazione amorosa. Come detto la prova principale del procedimento è la lettera recapitata alla famiglia Macchi il 10 Gennaio del 1987, giorno del funerale della studentessa. Nella missiva, scritta in stampatello su un foglio bianco, erano riportati molti particolari del delitto e il movente legato ad un’ossessione religiosa. E in primo grado una perizia calligrafica aveva confermato la somiglianza tra la calligrafia della missiva e quella di alcune cartoline che Binda aveva spedito alla Macchi ai tempi della scuola.